La densità di un monologo perfetto
Osvaldo Guerrieri ci parla del suo racconto in cui un vecchio Beckett affida a un nastro le sue memorie, come Krapp.

Nella raccolta L’ultimo nastro di Beckett e altri travestimenti (Aliberti Editore), Osvaldo Guerrieri ci offre quattro autoritratti in forma di monologo: Carlo Emilio Gadda, Sibilla Aleramo, la moglie di Emilio Salgari e, infine, Samuel Beckett. Nel racconto a lui dedicato, il grande scrittore affida, come Krapp, le sue ultime memorie ad un nastro. Ho intervistato Osvaldo Guerrieri per saperne di più.
Nel suo racconto L’ultimo nastro di Beckett lei immagina che dopo la morte del grande scrittore una ragazza trovi un nastro registrato da un Beckett ormai morente. Sembra insomma che la fine del “poeta della fine” stia stimolando diversi autori italiani (vedi anche la pièce Wordstar(s) di Vitaliano Trevisan). Beckett da autore sta diventando personaggio?
È possibile, così come sono diventati o diventano personaggi altri scrittori: Gertrude Stein, Virginia Woolf… Di sicuro, decidendo di scrivere un racconto su Beckett, non potevo che farne un personaggio, immaginando addirittura che diventasse lui il personaggio di se stesso. Mi sembrava l’unico modo di dargli una minima credibilità. L’altra strada era il saggio. Ma non era il caso.
Il suo Beckett parla in prima persona con lo stile secco e a tratti beffardo dei suoi celebri personaggi. Però è più forbito di loro (dice “orinare” anziché “pisciare”). Come ha proceduto per ricostruire la lingua del Beckett-uomo?
C’è, naturalmente, parecchio arbitrio nel linguaggio che metto in bocca a Beckett. Non volevo fare un calco esatto della sua sintassi e del suo lessico, non volevo realizzare un “falso d’autore”. Al tempo stesso, non potevo neppure farlo parlare come Gadda o come Céline. Perciò ho usato una lingua più che vera, verosimile, la cui matrice si trova prevalentemente nei racconti, nelle narrazioni brevi.
A proposito della sua raccolta di racconti, qualcuno ha detto “questo è teatro” e lei ha ribadito “no: è narrativa”. Anche in Beckett ad un certo punto i registri tipici della scrittura teatrale (penso soprattutto al sottotesto, alle indicazioni di regia) si sono fusi con la scrittura in prosa. Beckett insomma, era uno scrittore o un commediografo?
Vale anche per lui, anzi soprattutto per lui, la caduta della barriera fra i generi. Il fatto che il Teatro utilizzi spesso i racconti piuttosto che l’opera drammatica dimostra che il discrimine fra narrativa e drammaturgia è molto labile e si riduce a pura diversità tecnica. Certo bisognerebbe distinguere tra il primo e l’ultimo Beckett, tra la forma “classica” di Aspettando Godot e la parola “libera” fino all’astrazione di Dondolo. Ma l’ultimo Beckett dimostra proprio (e lo farà anche Thomas Bernhard) che i generi sono una convenzione. Dipende soltanto da come si superano e dal peso specifico che si attribuisce alla parola.
Lei è un critico teatrale. Quanto conta ancora, oggi, l’opera di Beckett per chi si affaccia al mondo della drammaturgia, della regia teatrale, della recitazione?
È ancora fondamentale, soprattutto per il monologo. Nessuno finora è riuscito a eguagliare la densità e la perfezione del monologo beckettiano. Affrontarlo, significa misurarsi con l’impossibile. Ciò vale per il drammaturgo, il regista e beninteso l’attore.
Qual è secondo lei l’opera teatrale di Beckett che meglio rappresenta la poetica di questo autore?
Nella risposta il gusto personale conta moltissimo, non essendo possibile invocare regole oggettive. A parte Aspettando Godot, considero fondamentali Finale di partita, L’ultimo nastro di Krapp e Non io.

Osvaldo Guerrieri (Chieti, 1944) è giornalista e critico teatrale della Stampa. Oltre a numerosi saggi specialistici raccolti in opere collettive e consultive, ha pubblicato i romanzi L’archiamore (Guanda) e Un
padre in prestito (Novecento). Nel 2003 ha ricevuto il premio internazionale Flaiano per la critica teatrale.