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Beckett e Bion

Nel saggio dello psicoanalista Didier Anzieu (Marietti, 2001) la storia dell'incontro tra due giganti.

Anzieu è stato personaggio di spicco della psicoanalisi contemporanea. Francese, lettore vorace, filosofo e psicologo, autore di saggi quali L’io-pelle, Il gruppo e l’inconscio, Gli involucri psichici.

La storia raccontata nel suo saggio Beckett (Marietti Editore, 2001) è questa: nel 1934, Samuel Beckett, allora ancora pressoché illustre sconosciuto, inizia a soffrire di disturbi psichici: attacchi di panico, insonnia, fremiti notturni, senso di oppressione e di depressione. Su consiglio del suo amico medico Geoffrey Thompson, Beckett inizia una terapia psicoanalitica alla Travistock Clinic di Londra. Il suo psicoanalista è il celebre Wilfred Bion (anche lui, all’epoca, ancora pressoché illustre sconosciuto). Le sedute si protrarranno per circa due anni, senza alcun successo apparente. Beckett e Bion non vanno d’accordo. Soprattutto Beckett guarda con sospetto, derisione e stizza al suo analista.

La tesi del saggio di Anzieu, però, è più luminosa: secondo Anzieu, infatti, l’incontro breve e ruvido tra questi due giganti della cultura fu invece fertilissimo anche se mostrò i suoi segni solo successivamente. Bion diventerà un geniale interprete della psicoanalisi post-freudiana e Beckett il più alto cantore della condizione umana del ventesimo secolo. L’idea di Anzieu è che tutto questo non sarebbe accaduto (o quanto meno che non sarebbe accaduto così bene) se le vite di B. e di B. non si fossero incrociate.

Ma ci sono ben altri motivi per leggere questo libro di Anzieu. Il primo consiste nell’originalità della struttura: ciò che noi leggiamo non è il libro di Anzieu su Beckett, ma è il diario di Anzieu nei giorni della stesura del libro su Beckett. Il gusto postmoderno di Anzieu non si ferma a questo suo essere contemporaneamente autore e personaggio della sua opera e nel proporci solo il metatesto del libro vero e proprio. Si va oltre, dalla molteplicità dei generi (il libro è scritto in parte in forma di diario, in parte in forma di intervista, in parte in forma di saggio) alla varietà dei tempi (il libro è stato composto in due stesure. La prima è stampata in corpo normale, la seconda in corsivo. Al lettore viene chiaramente offerta la possibilità di leggere prima tutto il “normale” e poi tutto il “corsivo” oppure intrecciare, come in un anello di Moebius, le due letture), da alcune particolarità matematiche (sette capitoli e poi sette post-scriptum. Il sette, svela subito Anzieu, rimanda chiaramente al numero dei giorni della Creazione. Il settimo capitolo così come il settimo giorno è luogo di riposo e contemplazione) alla presenza ricorsiva di relazioni uno a uno (nel corso della lettura sono riuscito ad isolare almeno le seguenti coppie: Anzieu – Beckett, Bion – Beckett, paziente – psicoanalista, lettore – Anzieu, lettore – Beckett).

Una madre che, fin quando è viva, non finisce di vivere e che, dopo esser morta, non finisce di morire. Il sepolcro di May è opera, ed è l’opera, di Sam.

Didier Anzieu a proposito della madre di Samuel Beckett (in «Beckett», Marietti, 2001)

L’idea (forse troppo ottimistica) è che, per ricchezza di forme e di contenuti, questo libro possa essere letto tranquillamente anche da chi non conosce l’opera di Beckett. Per i beckettiani, invece, non v’è dubbio sull’interesse di alcuni spunti contenuti nel testo. Vediamoli:

  • La struttura paziente – psicoanalista ricorre fin troppo spesso nell’opera di Beckett. Prendiamo i suoi personaggi: Mercier e Camier, Watt e Knott, Vladimiro ed Estragone, Hamm e Clov per citare le coppie più lampanti, non fanno altro che riprodurre lo schema dialogico e inquisitorio (spesso reversibile) del paziente e dello psicoanalista. Poi, la svolta del 1945 (vedi più avanti): la trilogia romanzesca MolloyMalone muoreL’innominabile, la scoperta che si può fare psicoanalisi senza lo psicoanalista.
  • La teoria della catastrofe fortemente radicata nel lavoro di Beckett. Secondo lo psicoanalista inglese Winnicott, «il timore di un crollo imminente è l’inconscia rimemorazione in atto di un crollo così precoce e così devastante che la memoria di allora non ha potuto registrarlo». La cosa sorprendente è che Beckett riverberava queste teorie nei suoi scritti proprio mentre la psicoanalisi contemporanea le definiva e le rendeva pubbliche. Dal momento che la frequentazione di testi di piscoanalisi da parte di Beckett non è documentata siamo liberi di supporre che Beckett abbia “avvertito” certe teorie scientifiche prima degli addetti del settore.
  • La mamma è sempre la mamma. Gli psicanalisti sembrano fissati con mamme oppressive e complessi di Edipo e Anzieu non fa eccezione. In effetti, miss May Jones Roe coniugata Beckett non era propriamente uno stinco di santo e avrebbe fatto la gioia di Freud: puritana ai limiti della frigidità, infermiera tutta clisteri e purghe, cupa, inibitoria, castrante, con i figli incapace di ricevere e di dare affetto e nonostante questo (o forse proprio per questo) odiata e amata da Beckett. Scrive Anzieu: «Una madre che, fin quando è viva, non finisce di vivere e che, dopo esser morta, non finisce di morire. Il sepolcro di May è opera, ed è l’opera, di Sam». Sarà. Non che ci si voglia mettere in competizione con i luminari della psicoanalisi, ma dire che l’opera di Beckett è tale per merito (anche se negativo) della madre non mi convince troppo.
  • La primavera del 1946. Chi conosce la biografia di Beckett sa quanto sia fondamentale questa data. In una notte della primavera del 1946, Beckett ebbe una “visione interiore” standosene sdraiato di notte su un molo a Dublino, visione che gli chiarì una volta per tutte quale doveva essere l’argomento della sua opera. Prima di quella notte l’opera di Beckett aveva seguito il solco di Joyce: un’opera che elevava a potenza la conoscenza, un’opera accumulatoria ed erudita che attingeva energia e forme dal mondo esterno. Dopo quella notte l’opera di Beckett agirà in senso opposto: non più elevazioni a potenza, ma estrazioni di radici, non più accumulazione ma impoverimento, non più il mondo esterno, ma quello interno. Il vero lavoro di Beckett inizia da quella notte: Molloy, Malone, L’innominabile, Vladimiro ed Estragone, Hamm e Clov, Willie e Winnie e tutti gli altri non sarebbero potuti nascere senza quella notte della primavera del 1946. Lo stesso Beckett ricorderà quella notte nella pièce L’ultimo nastro di Krapp. Piccolo particolare biografico, piccola trappola in cui anche Anzieu cade. Non si tratta della primavera del 1946 (come viene detto in Krapp), ma dell’estate del 1945, non è il molo di Dublino (come viene detto in Krapp), ma la stanza della madre. «Rendilo chiaro una volta per tutte!» dirà un giorno Beckett al biografo Knowlson. E io ribadisco.

Anzieu si proponeva probabilmente di scrivere un saggio di psicoanalisi applicato a un autore letterario. È uscito invece un saggio di letteratura scritto da uno psicoanalista. Dopotutto, meglio così.

Per chiudere. Anzieu esamina diversi testi di Beckett in modo molto approfondito (c’è tutto un capitolo dedicato allo studio del lessico di Watt, l’uso dei palindromi, dei doppi sensi, le allitterazioni; un altro capitolo coglie il parallelismo tra lo stile del Beckett maturo ed il suo alcolismo giovanile) traendone conclusioni a volte un po’ forzate ma sempre interessanti. Un esempio su tutti: Beckett sceglie di scrivere in francese perché inconsciamente non vuole scrivere le parole scurrili che spesso appaiono nei suoi testi usando la sua lingua madre (la lingua madre è anche la lingua della madre. Vedi sopra).

Con Beckett, Anzieu si proponeva probabilmente di scrivere un saggio di psicoanalisi applicato a un autore letterario. È uscito invece un saggio di letteratura scritto da uno psicoanalista. Dopotutto, meglio così.

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