Arcimedialità e spettatore mediale
Nel saggio "Lo sguardo sottratto" (Liguori), Antonio Iannotta propugna l'abbatimento dei confini tra le diverse forme di espressione con cui beckett si è cimentato.
Quanto pesino i media nella poetica beckettiana è una questione che appassiona e divide critici e lettori da molto tempo, senza cali di tensione. Un nuovo guizzo si è avuto di recente, all’uscita del volume PlayBeckett di Massimo Puliani e Alessandro Forlani, tutto incentrato sui rapporti tra Beckett e multimedialità, volume che fu recensito freddamente da Massimiliano Parente (“Ma Samuel era davvero multimediale? Chissà”, ne Il Domenicale, 15 aprile 2006) il quale sosteneva che la dimensione mediale, in Beckett, è del tutto secondaria.
Da questo punto di vista, il saggio di Antonio Iannotta, Lo sguardo sottratto. Samuel Beckett e i media, appena apparso per i tipi di Liguori, è un saggio, per così dire, schierato. Il giovane studioso napoletano propugna l’abbattimento dei confini tra le diverse forme di espressione con cui Beckett si è cimentato e invita a riconoscere l’esistenza di un arcimedium che le racchiuda tutte. Dunque, a poco serve chiedersi se Beckett sia stato più narratore o poeta, drammaturgo o saggista oppure tele-radio-cine-sceneggiatore (e Iannotta insiste, giustamente, anche su un’ulteriore dimensione, spesso trascurata, dell’autorialità beckettiana: il Beckett-regista). Questi compartimenti stagni richiedono fruitori rigidamente classificabili: il lettore, l’ascoltatore, lo spettatore. Iannotta ritiene invece che chiunque approcci l’opera di Beckett sia uno “spettatore mediale”, trasversale alle diverse forme espressive.
A poco serve chiedersi se Beckett sia stato più narratore o poeta, drammaturgo o saggista, tele-radio-cinesceneggiatore o regista. Chiunque approccia l’opera di Beckett è uno “spettatore mediale”, trasversale alle diverse forme espressive.
La tesi, largamente condivisible, richiede comunque cautela. Se è vero infatti che in Beckett nessuna arte è secondaria, è altrettanto vero che la multidimensionalità mediale della sua geometria espressiva viene raggiunta da Beckett nel corso di un lungo processo di elaborazione e scoperta. Gli esordi si giocano tutti sui confini del foglio di carta (la narrativa, la poesia, la saggistica). Ciò che gli farà guadagnare più celebrità in assoluto, il teatro, viene paradossalmente esperito come oasi di rilassamento nel tormento della Trilogia. La radio viene “tentata” su commissione. E la televisione, infine, pur essendo stata scelta più o meno consapevolmente, giunge tra le mani di un Beckett sessantenne, già ampiamente affermato e in grado di godere di una invidiabile apertura di credito da parte del suo pubblico.
Cautela, dunque, nell’individuare un carattere progettuale nella costruzione di questa arcimedialità beckettiana, che pure esiste e che Beckett, a riprova della sua grandezza, ha saputo condurre e governare con mirabile coerenza.
Iannotta apre le danze del suo saggio con una riflessione approfondita sul versante narrativo, con particolare attenzione a Watt e L’Innominabile, e dal corpo sottratto di quest’ultimo giunge alla scena negata del versante teatrale, dove «il palcoscenico si riduce a spazio mentale, a tana, a deserto abbacinante, a giara, a urna», sottolineando la centralità del ruolo della luce nella scrittura teatrale beckettiana («Cos’è tecnicamente più pregnante in un teatro che fa dell’immagine il suo specifico, se non la luce? Da qui sortisce il grande interesse, e la grande importanza, che Samuel Beckett conferisce all’illuminotecnica»).
Ecco l’arcimedium beckettiano, dispositivo che – e come potrebbe essere altrimenti? – viene costruito in levare, con finalità esaustive (concetto caro a Deleuze, che nel saggio di Iannotta viene citato generosamente): levare movimento («Giorni felici»), levare tempo («Respiro»), levare spazio («Quad»).
È un passaggio non banale, nell’economia dell’analisi qui proposta. Iannotta punta molto sulle tecniche dei vari media affrontati da Beckett mettendo volutamente in secondo piano i possibili significati delle singole opere (è il mezzo che fa il messaggio, dunque, secondo il precetto mcluhaniano che percorre, seppure discretamente, le pagine del volume). Ecco perché è così importante la multimedialità in Beckett: non ci troviamo di fronte a un autore che ha giocato con tutti i mezzi messi a disposizione dalla sua epoca cedendo alle debolezze della sperimentazione, ma a qualcuno che ha costruito la sua poetica nel quadro delle dinamiche e dei cortocircuiti tra i vari mezzi, con uno scrupoloso rispetto nei confronti della natura e delle caratteristiche proprie di ognuno di questi mezzi. Qualcuno insomma che non si è rivolto a questo o a quello, indifferentemente, ma che ha utilizzato questo e quello per esprimere ciò che non si poteva fare a meno di esprimere: il nulla, il silenzio.
«Cosa accade al medium teatro nel momento in cui Beckett lo invade, portando sulla scena un magnetofono? – si chiede Iannotta, parlando del Krapp – Come muta l’utilizzo del medium teatrale quando lo si fa interagire col cinema e la televisione?». Ecco l’arcimedium beckettiano, dispositivo che – e come potrebbe essere altrimenti? – viene costruito in levare, con finalità esaustive (concetto caro a Deleuze, che nel saggio di Iannotta viene citato generosamente): levare movimento (Giorni felici), levare tempo (Respiro), levare spazio (Quad). Sul versante radiofonico: levare lo sguardo, essere immersi nel buio amniotico delle opere radiofoniche di Beckett, «voci che perseguitano molti dei protagonisti delle camere mentali, autentiche sale di tortura» dove non è possibile sottrarsi al supplizio della percezione.
Il tempo passa. È tutto. Trovi un senso chi può. Io spengo.
Samuel Beckett, «Cosa dove»
Dal versante radiofonico a quello televisivo, l’ultima frontiera dove la locusta beckettiana si è lasciata dietro il deserto. «Il tempo passa. È tutto. Trovi un senso chi può. Io spengo». Sono le ultime parole di Cosa dove, opera nata in origine per il teatro e poi trans-mediata dallo stesso Beckett per la televisione, le ultime parole in assoluto che Beckett scrisse per il teatro e per la televisione. E, nota giustamente Iannotta, funzionano meglio per la televisione che per il teatro.