Solitudini nella collettività
Paola Longo ha intervistato Carlo Quartucci a proposito del suo collage di atti unici di Beckett intitolato "Primo amore".
Paola Longo collabora con la rivista “La Biblioteca Teatrale”. Quella che segue è un’intervista al regista e attore Carlo Quartucci realizzata nel 2002, mentre raccoglieva materiali per la sua tesi “Carlo Quartucci. Viaggio nell’universo beckettiano” (di cui pubblichiamo un estratto nella sezione materiali). Nell’ambito della stessa attività, Longo ha intervistato anche Carla Tatò.
di Paola Longo
Mi parli del lavoro con gli attori in Primo Amore?
Per Primo amore ho voluto degli attori che fossero esemplari diversificati. Avevo scelto da un lato Carla Tatò, che aveva un enorme maturità e che per la prima volta affrontava Beckett e a lei avevo affidato l’immagine, un viaggio dentro all’immagine, alla voce, allo spopolamento della voce, alla decomposizione, alla voce che parlava fuori scena, a lei che in scena rispondeva. Mentre invece avevo bisogno di Franco Citti e di Rada Rassimov per il fatto che erano due attori cinematografici e mi piaceva il fatto che portassero l’immagine cinematografica in scena. Con loro due facevo Catastrofe, che per me era anche un po’ come Film. Erano cioè immagini di cinema che per me erano anche dentro Catastrofe. A me piaceva lo sguardo , la presenza cinematografica. In Citti avevo inoltre l’immagine di un popolare che racconta. Io da lui non volevo la poeticità che c’è in quel pezzo. Franco era selvaggio, era un attore di borgata e mi piaceva immaginare come in una borgata si potesse raccontare questa storia. Poi c’era Sandro Lombardi che aveva già fatto diversi Beckett con Federico Tiezzi, con i Magazzini. Aveva una grande passionalità d’attore. Sandro è un attore beckettiano. Nelle prove che abbiamo fatto per Un pezzo di monologo Sandro si registrava la sua voce, poi alle prove successive metteva quel nastro e si metteva le cuffie cercando di andare ancora più veloce di quanto aveva fatto la volta precedente. Poi ho scelto Laura Betti, che aveva già fatto Beckett, per la voce della madre. Questi corpi attoriali avevano fatto quindi Beckett o esperienze cinematografiche. Io ormai ero libero nel fare Beckett con tutte le esperienze che avevo dentro, ecco perché poi ho fatto gli otto pezzi montando, smontando e rimontando in lingue diverse, in giro per il mondo, modificando, modificando a seconda dei luoghi, degli attori. La scena di Primo amore è esplosa, come era esploso Beckett. Non c’era più la “strada di campagna con albero”, come in Godot: qui è di scena proprio la catastrofe. La scena è il palcoscenico a una delle sue ultime prove, e mi piaceva scoprire che la teatralità di Beckett che c’era in Aspettando Godot torna poi in Catastrofe, con la differenza che non ci sono più Pozzo, Lucky, Estragone e Vladimiro, ma Regista, Assistente e Protagonista.
Il teatro che c’è sotto i grandi testi si racconta nel teatro. In Catastrofe Beckett lo dice apertamente: la scena si svolge in un teatro ed è uno degli ultimi giorni di prove. Si apre il sipario e il Regista è lì che guarda il Protagonista, questo personaggio che è attore e non-attore, che è come una scultura, è un guardare il teatro come a un’immagine. È creare quell’immagine. In questi pezzi, a differenza di quanto era stato in Aspettando Godot o in Finale di Partita, molto difficile parlare di “recitazione in amicizia” perché i personaggi in pratica, a parte Catastrofe, sono sempre soli, l’altro non c’è e se hanno un doppio quello è il lampione o un personaggio che non parla e lo si intravede appena in scena, come in Un pezzo di monologo o Non io.
Perché i personaggi che hai scelto per Primo amore sono resi uguali da parrucche bianche e cappotti scuri?
Perché c’è un’indicazione molto bella: sono i capelli bianchi di Improvviso dell’Ohio e poi perché scoprivo che quei capelli, quella “nuvola nella testa”, era la grande saggezza di ogni personaggio che era vissuto tanto. Nessuno di loro dice quanti anni ha, se non May e la madre in Passi. In Un pezzo di monologo parla di “trentamila notti” e di “due miliardi e mezzo di secondi”, abbiamo fatto il calcolo e abbiamo visto che aveva più o meno ottant’anni. Anche Bocca parla di “settant’anni”. Sono tutti personaggi alla fine della loro esistenza. Poi questo richiamava anche alla scena di Paolini: c’era un rifrangersi dei personaggi negli specchi e in loro stessi. Tante solitudini nella collettività.
Che tipo di lavoro hai fatto con gli attori sulla voce?
Devo dire che non la finivo mai! Perché non avevo più a che fare con la parola di Beckett di Aspettando Godot e di Finale di partita, che comunque ha una sua logicità, è ancora legato alla prosa, insomma, ma con una parola ormai diventata verso. Non solo Beckett è un autore che ha scritto il verso, ma si è perso dentro questo verso. Così nell’arrivare al verso, si trova che esso è anche suono, è ritmo. È un “baciarsi” di versi. C’è un inferno di suoni e un’amorevolezza perché Beckett ha sempre una sorta di pietas per i suoi personaggi. Non io è un’ossessione. Non si ferma. Parla e parla e parla sempre della propria voce, delle parole che escono a pezzi. C’è come una condanna a parlare. Tutto il lavoro che Carla ha fatto sulla voce per questo pezzo è stato fatto insieme, ma il fatto di parlare aspirando ad esempio, l’ha trovato da sola. Una volta afferrato il ritmo, il senso, il suono, alla fine a lei è nata questa necessità di non fermarsi, è una sua tecnica che ha raggiunto all’interno di questo ossessivo dire, dire, dire. Ricordo il giorno in cui ha iniziato a parlare aspirando, per riuscire a non fare pause, a non fermare il flusso. Era la prima volta che non riuscivo a dirle il tono, perché era una cosa, quella che aveva trovato, che io non sapevo fare. E quando lei ha scoperto questa tecnica, io non avevo più niente da dire. La bocca di Carla era illuminata da quattro piccoli laser, direzionati con grande attenzione sulla bocca. Era necessario sapere ogni suo minimo spostamento per non far perdere la concentrazione della luce lì. Il resto doveva assolutamente essere invisibile. Quando poi finiva Non io lei doveva essere aiutata a scendere e poi arrivava sul palco e salutava saltando: doveva scaricare quell’energia enorme.
Torna qui tutto il lavoro, meno giocato che nel Godot, ma molto forte, sulla recitazione vocale in quanto tutto è vocalità e tutto è nella vocalità del verso, che prima era prosa. I pezzi sono tutti sonoramente tragici ma sono ironicamente chiamati da Beckett dramaticules. La voce deve restituire in suoni e ritmi la chiarezza di quello che dice: e qui risponde alla domanda chiave dell’autore: “Perché questa mia parola dice solo quello che dice e non va oltre?”. Ecco, alla fine questa parola è andata oltre, e quello che fa andare oltre la parola è il suono. La parola si fa carne, si fa espressione. Non c’è nessun verso in più. Ogni parola è prevista e c’è una sintesi perfetta. C’è questa secchezza, questa pulizia, questa qualità. In Catastrofe torna il mio amore per il bianco di Malevic: il Regista vuole che nel Protagonista tutto sia “sbiancato”. Vuole che la sua opera scenica sia proprio un’immagine e c’è la grande ironia di Beckett che fa sì che quello non sia un attore che esegue, ma che si ribella e alza la testa mentre il sipario si chiude. Nei dramaticules non c’è la scena, ma c’è l’immagine ed è questa la famosa drammatizzazione dell’immagine. Quella montagna di parole che troviamo in Non io o in Un pezzo di monologo serve a drammatizzare l’immagine e Beckett, con l’importanza data all’immagine e al suono, esprime il suo amore per due altre arti: la pittura e la musica. Cambiando cambiando si fa l’immagine. Entra in campo la modifica, l’ambiente, il paesaggio.
Carlo Quartucci (Messina, 1938), regista, attore e scenografo esordisce nel 1959 curando la regia e la scenografia di Aspettando Godot di Samuel Beckett a cui partecipa anche come attore. Nel 1962 fonda la “Compagnia della Ripresa” insieme a Cosimo Cinieri, Leo De Berardinis e Rino Sudano con i quali esordisce a Roma al Teatro Goldoni con lo spettacolo Me e Me. Protagonista della scena teatrale italiana insieme a Carmelo Bene, Carla Tatò, Carlo Cecchi, Perla Peragallo, Rino Sudano negli tra il ‘60 ed il ‘70, la sua ricerca si rivolge a linguaggi teatrali ispirati dalle correnti artistiche del surrealismo, del grottesco, del futurismo. Nel 1972 fonda la compagnia teatrale “Camion” con Carla Tatò. Nel 1981 raduna a Genazzano diversi artisti visivi, musicisti, scrittori, cineasti, e dà vita al progetto artistico “Zattera di Babele” con l’obiettivo di sperimentare un nuovo linguaggio scenico attraverso l’interazione delle arti. Nel 2002 viene insignito della laurea honoris causa dal DAMS dell’Università di Torino.