La voce è la luce della parola
Paola Longo intervista Carla Tatò sul lavoro compiuto su "Non io", "Dondolo" e altri testi beckettiani.

Paola Longo collabora con la rivista “La Biblioteca Teatrale”. Quella che segue è un’intervista all’attrice e registra teatrale Carla Tatò realizzata nel 2002, mentre raccoglieva materiali per la sua tesi “Carlo Quartucci. Viaggio nell’universo beckettiano” (di cui pubblichiamo un estratto nella sezione materiali). Nell’ambito della stessa attività, Longo ha intervistato anche Carlo Quartucci.
di Paola Longo
Come è stato il tuo incontro con Beckett e il viaggio dentro Beckett fatto con Quartucci?
L’esperienza di Beckett e di Beckett con Quartucci è un tutt’uno che ha una base prima che è il Beckett che mi arriva. Beckett non può non essermi arrivato nella mia storia attoriale, ma mi è arrivato sempre in immagine della narrativa, del romanzo, che è straordinario.
Non mi sono mai fatta attirare dal teatro di Beckett. Nel momento in cui poi ho conosciuto Carlo mi sono trovata dentro a tutto un universo beckettiano, che era certamente l’universo di Quartucci e di Beckett, in cui Beckett mi chiamava. E io non rispondevo. Non rispondevo, non lo sapevo perché. Solo dopo, quando ho risposto, il perché l’ho capito: perché bisognava andare “oltre”, non si poteva solo essere “qui” e questa condizione di un “oltre”, di un “aldilà” dell’attore, io l’ho cominciata, devo dire, con Quartucci, non prima. Prima ho costruito una condizione attoriale con certi segni, però dopo, da quando poi ho cominciato un lavoro profondo con Carlo di conoscenza di me, allora ho cominciato a capire. E la risposta è arrivata con Passi. Da lì è esplosa una situazione e una condizione dell’attore che era ormai pronta. Questo ha scatenato una scoperta enorme di un’altra attorialità, molto forte, profonda e vera, mia. E quindi è stato un incontro nodale. Grandissimo.
Ho cominciato nell’87 questo viaggio e da quel momento non mi ha mai abbandonato. Veramente, io non faccio altro che ritornare a queste parole di Beckett, che sono parole straordinarie, continuamente. Nell’arco della giornata non c’è un momento in cui io non ci vada. Le parole originarie, quelle di Passi, di Non io, di Improvviso dell’Ohio, di Un pezzo di monologo, di Quella volta… non è che mi sia fermata ai cosiddetti ruoli. Sono parte della mia condizione attoriale quotidiana.
Questo è il primo elemento fondamentale di Beckett. Quando si scopre questo, che è una grande spinta propulsiva, che si può fare? È impossibile. C’è un rapporto di impossibilità profonda nel rapporto con Beckett.. Beckett mi riportava nello stato enigmatico: come fare? Mentre c’è questa stranissima umanità in Passi e c’è un gioco di ironie, di humor, con Non io ho trovato il senso tragico dell’immagine, della parola beckettiana fino alla comicità. Quella comicità che nasce dopo il tragico per cui è indicibile, è impalpabile, ma la bellezza di Bocca è questa. Cioè è talmente enorme la sua tragicità che si arriva alla comicità. È un cerchio. Perché è troppo. C’è una tragedia troppo forte in questa bocca che per settant’anni non ha parlato e ritrova la via nell’emissione vocale.
Ora, c’è un tale congiungimento con la condizione della mia ricerca attoriale, cioè del dove trovare una possibile espressione alla parola, quale corpo, quale peso, quale vibrazione la fa esistere, le dà una ragione di vita scenica. Tutte le indagini fatte, tutta questa necessità matematica di Beckett, come la musica, di trovare una musicalità della parola, mi apparteneva. Era troppo intrigante, è stata una sfida straordinaria.
In «Non io» la comicità nasce dopo il tragico. La bellezza di Bocca è questa. È talmente enorme la sua tragicità che si arriva alla comicità. È un cerchio.
Carla Tatò
Il fatto di aver lavorato con Carmelo Bene, che ha un certo modo di usare, di modulare la voce, ha influenzato il tuo modo di recitare?
Quelli con Carmelo sono stati i primi anni della mia attività, quindi inevitabilmente… Ma la grande scuola di Carmelo è stata la vita del teatro. In quel periodo fatto con lui era più un clima da “vita vera” del teatrante, dell’artista, del creatore, che si viveva che non la vita dei cosiddetti teatranti che andavano in scena con uno spettacolo. Cioè, c’era più un’implicazione profonda della persona. Carmelo ci trasmetteva un concetto di vita, non è che ci trasmetteva “come recitare”, se non con delle botte al diaframma perché sapeva che facendo così c’era una reazione e tu potevi memorizzare una vibrazione sonora piuttosto che una voce che usciva così, senza neanche sapere come. Per cui così memorizzavi come usciva la voce e ripercorrevi e riuscivi a comprenderne, se lo comprendevi, il percorso.
Ma è stata solo la scuola dell’esperienza, non era una scuola “voluta”. E l’esperienza era totalizzante, questo sì. Tanto è vero che ero talmente incosciente che poi c’è voluto un grande maestro come Carlo negli anni successivi che tutta questa esperienza me l’ha fatta comprendere. C’era una mia natura naturalmente legata alla musica, per la mia storia, per la mia condizione creativa. La musica, la musicalità e tutto ciò che è suono è per me determinante, proprio come stato esaltante creativo, come citazione del pensiero, dell’idea e della costruzione dell’azione attoriale. Il lavoro fatto fin dall’inizio con Quartucci è stato duro, ma lui era davvero “l’uomo della macchina attoriale”, perché è uno che ama profondamente lo stato dell’attore. Quando ha un attore fra le mani, se c’è – e ci deve essere uno stato di sintonia altrimenti diventa terrificante – Carlo riesce a farti conoscere te stesso e a non averne paura, qualunque sia la tua condizione, per poter liberarti e andare verso un viaggio.
In Dondolo c’è una condizione particolare dell’attore, la stessa che troviamo in Quella volta: l’attore in scena è muto, non dice nulla, se non, in Dondolo, “ancora”. È stato frustrante in qualche modo questo fatto, inconsueto, di trovarsi in scena e non poter dire nulla?
No, assolutamente. Dondolo è una cosa che adoro perché la fase della costruzione della voce su nastro magnetico è una fase bellissima, è proprio la tua voce che viaggia, le tue vibrazioni. La parte poi con il musicista, in questo caso Henning Christiansen, che ha lavorato sulla mia voce, proprio su tutte le sue componenti e il viaggio in quattro movimenti in questo testo, consiste proprio nel fatto che a un certo punto la componente profonda della mia voce, quella nasale, quella dolce, quella ritmica sono diventati i quattro “pedali” che nei quattro movimenti si accentuano fino alla fine. Ogni movimento aveva una dominante vocale. Fino alla fine in cui tutto questo inevitabilmente ha portato a un gioco maggiormente strumentale, che parte come naturale e arriva ad una voce che si perde. Si perde e cade nella storia. Per cui si ha questa destrutturazione della propria voce, come una decodificazione. È una ricerca straordinaria quella di poter conoscere e vedere la propria voce, come destrutturata: ci vai dentro e cominci ad avere questa sensazione che la tua compagna è la tua voce, non è una cosa estranea. E nascono una conoscenza e un amore enorme.
Quando poi tutto questo rapporto in scena è amplificato e diventa gigantismo della voce, ti inebria. E Beckett prevede esattamente questo rapporto, esattamente come l’attore ce l’ha nell’attimo in cui comincia l’azione di Dondolo: tu sei immerso nella tua stessa propria voce, che hai costruito in questa vita sul nastro magnetico. Quindi è una cosa non “strana”, ma straordinaria! Ci vai con la mente, stai dentro, ogni volta ci cadi, ti innamori della tua voce, ti allontani, la odi, la ami….
Questi quattro movimenti sono proprio una vita di scena enorme, anche se non c’è che una parola che dice dal vivo, “ancora”, ma è una memoria che affiora quindi è una trasparenza della voce e quella voce è una vita attoriale, per cui tu sei eccitato, ansioso e partecipe. Totalmente. Assolutamente.
Dondolo e Passi contengono un gioco straordinario del conforto della parola beckettiana che è magnifico. Sono parole talmente tanto piene che saziano. Oltre i concetti, la parola stessa ti sazia. Ogni parola è una miriade di concetti, di richiami, di rimandi, di ritorni, di memorie stratificate di stati originari per cui più di quindici, venti minuti non reggi, perché è violentissimo.
È una ricerca straordinaria quella di poter conoscere e vedere la propria voce, come destrutturata: ci vai dentro e cominci ad avere questa sensazione che la tua compagna è la tua voce, non è una cosa estranea. E nascono una conoscenza e un amore enorme.
Carla Tatò
Tutto questo lavoro di parlare aspirando la parola, risucchiandola, come è arrivato? Come hai indagato Non io per arrivare a questa tecnica?
Non io è un esempio di una tragedia contemporanea spasmodica ed è un’immagine che va tra teatro e cinema, cinema e teatro. C’è questo primissimo piano della bocca che è impossibile da fare a teatro. Eppure lì si prevede soltanto la bocca. Questo era un problema. Allora ci deve essere un gigantismo della bocca, un lavoro a teatro forte e che viene dal grande lavoro con Quartucci che abbiamo sempre fatto. Il momento in cui ho visto Bocca ho pensato ad un rapporto cinematografico.
Però in realtà l’accadimento è lì, in quel momento ed è il senso della tragedia assoluta: cosa c’è di più tragico di una che per settant’anni è rimasta muta, non ha parlato? Il momento in cui riacquista la voce, che parte dal cervello, è un comando: finalmente arriva il comando di parlare, che per settant’anni non è riuscito a rompere, a trovare una via e che ora improvvisamente la trova. Tutto mi era molto familiare rispetto al lavoro che io faccio con la sonorità, con la vibrazione sonora perché venivo da una grande chiarezza del percorso della voce.
All’inizio testi come questo ti lasciano spiazzato. Ti chiedi: come lo leggo?
Certo, se li vai a leggere con la sola idea della messa in scena, sì, ti spiazzano. Ma non se vieni da un lavoro strutturale profondo, in cui la voce equivale a un mondo di vibrazioni continue che sono la luce della parola. E da lì è cominciata questa polifonia della voce, in questa condizione, ripeto, di incontro con l’indicibile, con quello che non si può dire e che qui era la tragedia di questa donna di settant’anni che ritrova questa sua bocca, e quello che Bocca dice è una cosa tragica. L’immagine era questa: la rifrazione delle sonorità di questa cavità, dal cervello al diaframma attraverso l’esofago e tutte queste possibili cavità delle guance, della bocca, della gola per permettere a questa tragedia di esprimersi. E ne viene fuori questa stranissima polifonia vocale. Non ho idea di dove andrò. Troveremo altre strade.

Carla Tatò (Roma, 1947), attrice e regista, dopo essersi specializzata in scenografia all’Accademia Romana di Belle Arti, lavora in teatro come attrice con Carmelo Bene. Nel 1970 è cofondatrice, insieme a Dacia Maraini, del Teatro di Quartiere e nel 1971 fonda il Teatro di Strada con Gian Maria Volonté, Flavio Bucci, Antonio Salines, Magda Mercatali, Armenia Balducci. Nel 1973 fonda con Carlo Quartucci la compagnia itinerante “Camion”. Sempre con Quartucci fonda nel 1982 la compagnia “Zattera di Babele” di cui faranno parte non solo attori di teatro e cinema ma anche pittori, musicisti e poeti. Da questo progetto prendono vita spettacoli di respiro europeo, tra i quali Pentesilea, Uscite, Didone, Platea, Comédie Italienne.