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Con onesto amore di degradazione

Nel saggio di Luigi Weber, pubblicato dal Mulino, l'onnipotenza della parola joyciana viene contrapposta all'impotenza della parola beckettiana.

È possibile estrarre una “funzione Beckett” da quella zona della letteratura dai contorni mutevoli che viene identificata con il nome di narrativa sperimentale e d’avanguardia, specialmente per quel che riguarda la scrittura in Italia? La domanda sembrerebbe uscire dai due volumi curati da Cortellessa e Alfano, Tegole dal cielo (Edup, 2006), tutti incentrati sul binomio Italia-Beckett e invece è il calcio d’avvio del saggio Con onesto amore di degradazione – Romanzi sperimentali e d’avanguardia nel secondo Novecento Italiano (Il Mulino, 2007) di Luigi Weber.

Più precisamente, la “funzione Beckett” è quella che ha innervato il versante nichilista dell’avanguardia, quella «tensione alla non significazione, allo smontaggio programmatico di ogni coerenza narrativa, alla vanificazione delle attese» e in questo senso viene contrapposta alla “funzione Joyce” che di poco l’ha preceduta. «Mentre il parricidio desiderato, e simbolicamente perpetrato, da Dostoevski e Kafka, attraverso Smerdjakov e Ivan Karamazov in un caso, attraverso la terribile Lettera al padre nell’altro, insiste ancora su una traccia familiare, a rendere più interessante Beckett ai fini del nostro incipiente ragionamento è che la sua rivolta, e l’estinzione sacrificale che ne promana, rimangono interne allo spazio letterario, e così facendo lo dissestano», così Weber nell’introduzione. E prosegue: «Il padre che l’irlandese si ripromette di eliminare, fin dal 1932, è soltanto James Joyce. Questo fa del nodo relazionale Joyce-Beckett una perfetta immagine allegorica del conflitto, che taglia il Novecento intero, tra avanguardia e sperimentalismo, una coppia ben lungi dal risolversi sempre e solo in mera complementarietà o in piatta sinonimia». Ecco dunque la frase implosa di Beckett contrapposta alla frase esplosa di Joyce o – per usare un’altra delle opposizioni proposte – la parola dell’impotenza contro l’onnipotenza della parola.

La rivolta di Beckett, e l’estinzione sacrificale che ne promana, rimangono interne allo spazio letterario, e così facendo lo dissestano.

Luigi Weber

Lo studio di Weber non ruota intorno a Beckett, ma – come detto – da Beckett parte per attraversare una serie di densi capitoli (voglio ricordare almeno quello in cui si tracciano i lineamenti dei generi moderno e post-moderno e quello con il commento al secondo convegno del Gruppo 63, tenuto a Palermo nel 1965) e, dopo averlo chiamato in causa più volte di striscio, a Beckett pienamente torna quando si interroga sul ruolo giocato dall’irlandese nella letteratura italiana.

Con sorpresa troviamo almeno due nomi che generalmente non vengono citati quando si parla di influenze beckettiane in Italia: Luigi Malerba e Paolo Volponi. Il primo, certamente, con il suo spericolato Salto mortale del 1968 costituisce una prova, spesso dimenticata eppure evidente, di manierismo beckettiano.

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