Misurando lo spazio impossibile
In «Im-marginable» (Aracne Editore) Federico Sabatini indaga il concetto di spazialità nell'opera di Joyce, Genet e Beckett.
«Giuro di sbarazzarmi di J. J. prima di morire, sissignore». Così Samuel Beckett in una lettera indirizzata al professor Putnam nel 1932. Le iniziali, J. J., indicavano l’amato-odiato maestro, James Joyce. E se Beckett è riuscito, in vita, a disfarsi dell’ingombrante influenza del papà di Ulysses, dopo morto deve accettare di trovarsi a spartire il condominio di una saggistica che proprio con quel J. J. sempre più spesso lo mette a comparazione, per valutarne distanze e caratteristiche comuni.
È stato il caso, ad esempio, di un saggio di Luigi Weber uscito quest’anno (Con onesto amore di degradazione) in cui l’autore individuava, nell’ambito del romanzo sperimentale italiano, una funzione Joyce e una funzione Beckett che descrivessero le due tendenze simmetriche di onnipotenza/impotenza della parola. E di nuovo ecco insieme Beckett e Joyce (come non pensare alle celebri coppie beckettiane? Hamm e Clov, Didì e Gogò…) in un recente saggio, Im-marginable. Lo spazio di Joyce, Beckett, Genet, firmato da Federico Sabatini per i tipi della Aracne.
Il titolo è preso in prestito da un neologismo joyciano che compare nel primo libro del Finnegans Wake: “im-marginable“, dunque “immaginabile”, ma anche “immarginabile” cioè non conchiudibile in margini. Immaginazione illimitata. E quale punto di partenza più distante da quell’immaginazione morta immaginate, severo monito beckettiano che l’Irlandese usò come norma stilistica per la sua produzione più matura e che assunse dignità di titolo per una meravigliosa prosa breve del 1965?
Ecco dunque l’argomento dello studio di Sabatini. Il concetto di spazialità nell’opera di tre grandi autori del Novecento (ai due ieratici Joyce e Beckett si affianca, infatti, un più sanguigno Genet), nella doppia accezione di luogo (relativo) e di spazio (assoluto). Sorretto da una solida strumentazione filosofico-scientifica (molti i nomi chiamati in causa, ma qui vale la pena di ricordare almeno Bruno, Cartesio e Berkeley che ai beckettiani d.o.c. fanno accendere rispettivamente le lampadine di Dante … Bruno . Vico .. Joyce, Whoroscope e Film), Sabatini conduce la sua analisi partendo dai Dubliners di Joyce per poi approdare al capitolo in cui viene affrontata la geografia beckettiana.
Se da un lato appare discutibile la scelta di focalizzarsi sulla produzione narrativa (e su un numero piuttosto ristretto di titoli) lasciando ai margini quella teatrale, dall’altro va dato atto all’autore di aver offerto una disamina quanto mai dettagliata delle diverse nature dello spazio beckettiano. Uno spazio in cui il movimento è sempre senza scopo, quando non tende esplicitamente alla stasi. Vengono così opportunamente citati ampi stralci da Quello che è strano, via (in cui Beckett ricorre esplicitamente alla dichiarazione di misure geometriche per definire il luogo chiuso in cui vegetano i due esseri protagonisti) come esempio di una poetica in cui alla claustrofobia del luogo corrisponde un volontario impoverimento dell’immaginazione e del potere creativo dell’autore. Poetica della riduzione, dunque, ma riduzione che tende allo zero senza mai raggiungerlo. Imagination dead imagine, questo l’annichilente presupposto. Da qui l’impossibile compito, che Beckett si affida, di descrivere una «estensione spaziale non misurabile se non attraverso un processo immaginativo che è già compromesso in partenza dalla più volte dichiarata impossibilità di immaginare dei soggetti stessi».