Il cowboy McCarthy sulle orme di Beckett
Con "La strada" il grande scrittore statunitense mette piede nella beckettland più desolata ed estrema.
Oltreoceano, in molti hanno fatto ricorso al nome di Samuel Beckett per descrivere la materia dell’ultimo romanzo di Cormac McCarthy, uno dei maggiori scrittori USA contemporanei. Dal New York Magazine al Chicago Tribune, al Boston Globe, molti critici hanno visto il vecchio cowboy Cormac mettere piede, con The road (La strada, Einaudi, 2007), nella beckettland più desolata ed estrema. Per chi frequenta i testi beckettiani, il padre e il figlio protagonisti del breve romanzo di McCarthy e il loro vagare per un pianeta devastato da una non meglio precisata catastrofe non possono non ricordare i due anonimi personaggi di Basta o Hamm e Clov di Finale di partita. Uguale il loro rapporto di interdipendenza (con la differenza che il padre e il figlio di McCarthy sono sicuramente padre e figlio, appunto, e si amano, mentre la paternità che legga Hamm a Clov non è certa e i due, comunque, si odiano), uguale l’incertezza data al lettore/spettatore circa le cause che hanno ridotto la Terra a un astro freddo ricoperto da foreste incenerite. Ma il legame che unisce McCarthy e Beckett, grazie a questo romanzo, è più sottile.
L’americano sceglie, con The road, di partire da una tabula rasa di possibilità narrative. Sembra così di sentir echeggiare quell’imperativo esiziale e, nel caso dell’irlandese, fertilissimo: immaginazione morta immaginate. Provare, cioè, a creare materia narrativa partendo da risorse pressoché nulle: pochi personaggi, minime possibilità di colpi di scena provenienti dal contesto, quasi azzerate le speranze di evoluzione della storia. Una consapevole scelta progettuale a partire dalla quale Beckett ha costruito buona parte della sua opera, almeno dal 1962 in poi (volendo considerare Commedia come il primo tentativo beckettiano di scrivere una pièce paralizzando tutti i personaggi in scena e Quello che strano, via, che è dello stesso anno, il primo sviluppo narrativo del precetto imagination dead imagine, di cui si parlava prima).
Vediamo allora il padre e il figlio avventurarsi in questo pianeta morente, lo stesso, presumiamo, che osserva Clov col suo cannocchiale dalle feritoie della casa bunker in cui è confinato con Hamm. La diversificazione delle sequenze narrative, in The road, è minima. Quasi una permutazione di gesti e situazioni: i due si accampano, i due esplorano una casa abbandonata, i due asciugano al fuoco i vestiti bagnati di pioggia, i due contano quante scorte di scatolame hanno nel carrello che si trascinano dietro, e così via. Pochissimi, ma forse proprio per questo quanto mai incisivi, gli incontri con l’altro. Un vecchio, un ladro. E poi i cattivi, che sono quasi sempre sullo sfondo.
Già i cattivi. Il narratore di McCarthy, in quasi tutti i suoi romanzi, è un manicheo di rigidissima moralità. Il bene e il male sono ben distinti. Questo ha permesso all’autore di creare personaggi memorabili come, ad esempio, lo sceriffo di No country for old men (Non è un paese per vecchi, Einaudi 2006) o il giudice santone Holden di Blood meridian (Meridiano di sangue, Einaudi 1996). Ma è proprio questa distinzione così netta tra luce e ombra ad allontanare la creazione narrativa di McCarthy dalla poetica di Beckett. Passi per i dialoghi spesso stucchevoli tra padre e figlio (peccato: i botta e risposta tra i personaggi sono sempre stati un punto di forza dello scrittore di Providence) e sia lode invece a quelle quattro o cinque prove d’autore disseminate nel testo, a quelle descrizioni cosmiche che fioriscono quando il personaggio alza la testa dal paesaggio morente e medita sul destino della creazione (è questo tono da filosofo del deserto, da grande predicatore della fine, quello che più ci piace di questo scrittore), ma il punto in cui si molla l’ormeggio dalla riva beckettiana è proprio quello in cui McCarthy si ostina a concedere una speranza all’umanità.
Ce la caveremo, vero, papà?
Sí. Ce la caveremo.
E non ci succederà niente di male.
Esatto.
Perché noi portiamo il fuoco.
Sí. Perché noi portiamo il fuoco.
Lo stesso fuoco che Krapp, nella sua tana, sapeva di aver perduto per sempre.