I frammenti di Brook al Valle
I «Fragments» beckettiani firmati dal grande regista costituiscono uno spettacolo eccezionale. Non solo per la bravura degli attori ma anche e soprattutto per il lavoro di drammaturgia.
I Fragments beckettiani (Teatro I, Dondolo, Atto senza parole II, Neither e Va’ e vieni) firmati dal grande Peter Brook (in scena al Teatro Valle di Roma dal 20 al 25 novembre 2007) costituiscono uno spettacolo eccezionale. Non solo per la bravura degli attori (Jos Houben, Kathryn Hunter e Marcello Magni) ma anche e soprattutto per il lavoro di drammaturgia compiuto da Brook.
Il celebre regista inglese accorpa due pezzi molto noti del teatro beckettiano (Dondolo e Va’ e vieni) a tre assai meno rappresentati (Teatro I, Atto senza parole II e Neither. Quest’ultimo, tra l’altro, non è una pièce teatrale, bensì il testo che Beckett scrisse nel 1976 per la parte cantata dell’omonima opera musicale del compositore statunitense Morton Feldman). Su questi ultimi tre pezzi, saggiamente, Brook non interviene più di tanto, proponendo una regia attenta soprattutto a far risaltare il senso più autentico del testo. Ed ecco dunque che Teatro I, che a leggerlo sembra uno scarto di lavorazione di Finale di partita, esce fuori in tutta la sua brillantezza di perfetto meccanismo comico, per non parlare di Atto senza parole II che vede disinnescata la potenziale noia dei gesti ripetitivi per diventare – con la mimica di Houben e Magni – un irresistibile sketch di humour inglese (immaginate un episodio di Mr. Bean scritto da Beckett. Troppa grazia).
Sui due testi più noti, invece, Brook osa. Lo fa in modo garbato su Va’ e vieni (leggermente più accelerato del solito il ritmo, per non parlare del fatto che due delle vecchie signore sono impersonate dai due attori maschi). Ma è la strabiliante versione di Dondolo che vale da sola l’intera messinscena. Brook trasforma – grazie anche alla bravissima Hunter – questo pezzo di teatro horror in una creatura nuova, che parte in sordina, esplode di comicità al suo interno e ripiega su una buia desolazione. È la prima volta che vedo uno stravolgimento così pesante di un testo beckettiano funzionare così bene.
Chiudo con due piccole considerazioni. La prima: quanto Roberto Bacci portò in scena Aspettando Godot con le parti di Vladimiro ed Estragone impersonate da attrici scoppiò un caso internazionale con carte legali da parte degli eredi di Beckett. In questo Va’ e vieni Brook ha fatto recitare la parte di due anziane signore a due attori e non è successo niente. Voglio essere ottimista e vedere in questo il segnale di una maggiore morbidezza da parte dell’establishment beckettiano. Giudicare, insomma, il risultato sul palco e non le scelte registiche a tavolino.
La seconda: ieri, alla prima al Valle, è successo qualcosa di… assurdo. Dopo le risate giustificate su Teatro I, dopo l’incredibile Dondolo e dopo Atto senza parole II, il pubblico era su di giri. Parte Neither, il suo sobrio gioco di luci e ombre, quel testo rarefatto e… il pubblico continua a ridere. Imbarazzato mi guardo intorno, quando finalmente uno spettatore ha il coraggio di dire a voce alta: «ma guardate che questo non è comico…». Viene sfidato dalla risatina automatica di uno dei “ridenti”, ma il resto della platea tace nella vergogna. Che dire? Ognuno è libero di ridere come e quando vuole, ma l’impressione che ho avuto è stata quella di un pubblico diseducato che esprime le proprie emozioni prima di pensare. Un pubblico – ahinoi – tristemente televisivo.