Beckett e libertà di messinscena
Renato Palazzi firma sul Domenicale una stroncatura dell'ultimo allestimento beckettiano di Andrea Adriatico.

Sul Domenicale del Sole 24 Ore del 19 aprile scorso è apparsa una stroncatura, firmata da Renato Palazzi, dell’ultimo allestimento teatrale beckettiano diretto da Andrea Adriatico. Si tratta dello spettacolo Non io nei giorni felici (in scena ai Teatri di Vita di Bologna fino al 29 aprile) dove vengono messe in scena tre pièce di Beckett: Non io, appunto, Giorni felici e Dondolo.
Il bello di Beckett è che anche interpretando in modo sbagliato le sue opere si possono trarre interessanti indicazioni.
Renato Palazzi sul Domenicale del Sole 24 Ore del 19 aprile 2009
Scrive Palazzi: «A vent’anni esatti dalla morte di Beckett, si direbbe che l’attenzione nei confronti delle sue opere non accenni a calare, ma stia anzi crescendo. È segno che questi testi, col tempo, non perdono suggestioni, ma svelano anzi non tanto dei nuovi significati, quanto dei nuovi punti di vista sull’autore. Va da sé che così aumenta anche la possibilità di darne delle interpretazioni sbagliate; ma il bello di Beckett è questo, che anche dalla interpretazioni sbagliate si possono trarre delle interessanti indicazioni.»
Ora, in che modo Adriatico ha, secondo Palazzi, interpretato male Beckett? Il critico individua due passi falsi. Il primo è quello di aver voluto affrontare i tre testi «nell’insolita chiave di un sottile erotismo [mentre] nei testi di Beckett non c’è, non ci può essere posto per l’erotismo. […] Se una dimensione sessuale eventualmente si manifesta nei suoi personaggi, essa tutt’al più appartiene al passato e si sa che non esiste nulla di meno erotico del passato.»
Secondo errore di interpretazione, sempre secondo Palazzi: «Una recitazione sottotono, sussurrata, esageratamente introspettiva. [Adriatico rende i personaggi di Beckett] il contrario di quanto l’autore ha inteso scrivere, li riduce a storie personali, private, laddove le figure beckettiane si affannano in genere a parlare “in nome dell’umanità”. […] I testi passano in secondo piano e conta solo l’invenzione del regista. [Un approccio che] penalizza le attrici (Francesca Mazza, Angela Baraldi, Eva Robin’s, ndr), frenate, ingabbiate in un percorso comune il cui fine, per quanto ci si pensi, non è chiaro.»
Se una dimensione sessuale eventualmente si manifesta nei personaggi di Beckett, essa tutt’al più appartiene al passato e si sa che non esiste nulla di meno erotico del passato.
Renato Palazzi sul Domenicale del Sole 24 Ore del 19 aprile 2009
Non ho visto lo spettacolo di Adriatico, per cui non posso giudicare, ma le obiezioni di Palazzi, in linea teorica, sono plausibili. Ma se ho citato questo articolo è soprattutto perché solleva nuovamente l’annosa questione che vale per tutti gli autori teatrali, ma che diventa cruciale e focosa quando l’autore si chiama Samuel Beckett. La questione, cioè, della libertà di interpretazione da parte dei registi nella messa in scena dei testi.
Esistono due grandi poli intorno cui si distribuiscono le opinioni sulla questione. Semplificando: da un lato ci sono quelli che sostengono che il regista deve godere di massima libertà e dunque ha diritto a mettere in scena il “suo” Beckett come meglio crede. Al lato opposto si schierano quelli che pretendono rigore e fedeltà ai testi e alle precise indicazioni di regia che Beckett ha inserito nei copioni. Su questo tema sono tornato spesso, credo dalla volta in cui ci fu la famosa querelle Eredi Beckett contro Roberto Bacci circa il Godot messo in scena con due attrici nei panni dei personaggi maschili di Vladimiro ed Estragone.
Credo che per farsi un’opinione solida sulla questione sia doveroso tenere conto di alcuni dati di fatto. Samuel Beckett in vita è stato sempre fortemente contrario a messe in scena che si discostassero anche solo di poco rispetto a quanto da lui previsto. Questo punto è importante e non va sottovalutato. Se da un lato è vero che il regista deve essere libero di mettere in scena Beckett come meglio crede, dall’altro lato lo stesso regista non può ignorare che Beckett, se ancora vivo, si sarebbe con tutta probabilità opposto. Dico questo perché in passato mi è capitata una vicenda piuttosto singolare. Ero stato invitato a vedere un allestimento di Finale di partita (non dirò il nome della compagnia e di chi firmava la regia: si dice il peccato, non il peccatore…). Nelle note di regia lessi una frase che mi fece sussultare: «Come la maggior parte dei testi di Beckett, anche Fin de partie, permette al regista grande spazio interpretativo, ampie libertà nella messinscena, quasi la possibilità, con un giusto taglio, di far propria l’opera». Scrissi una mail al regista chiedendo da dove gli derivasse una tale teoria. Mail che rimase senza risposta. Ecco, insomma, liberi sempre e liberi tutti (i tentativi di censura messi in atto dagli eredi di Beckett non piacciono neanche a me). A volte poi, casi rari, allestimenti un po’ fuori dai confini del testo originale si sono rivelati molto interessanti (penso ad esempio al meraviglioso Krapp in calabrese di Cauteruccio), né sono così sciocco da sostenere che ogni allestimento “ortodosso” sia necessariamente anche riuscito dal punto di vista artistico. Liberi sempre e liberi tutti, ripeto, ma non facciamo discendere questa libertà da Beckett, quasi ce l’avesse consigliata lui stesso. Beckett non ha lasciato in eredità nessuna libertà di messa in scena.