Ancora su Beckett e libertà di messinscena
La recensione del Godot di Egumteatro e laLut, firmata da Caterina Meniconi per il Corriere di Siena, riapre un'antica questione.
La questione relativa alla libertà di messinscena delle opere di Samuel Beckett mi interessa molto. Caterina Meniconi (dottoressa in Teatro e frequentante la specialistica in Linguaggi dello spettacolo presso la facoltà di Lettere e Filosofia dell’Università degli studi di Siena) mi invia la sua recensione, apparsa sul Corriere di Siena del 26 giugno 2009, dell’allestimento di Aspettando Godot nato dalla collaborazione di laLut ed Egumteatro e andato in scena durante il festival Voci di Fonte. La copio per intero:
«Due figure nell’incessante attesa di Godot, che si muovono fra dialoghi inconcludenti, incontri con personaggi dall’aspetto strano e capovolgimenti dettati dal destino. Sopito sotto la polvere di messe in scena monotone e penalizzato da scelte registiche desuete, rinasce nello spettacolo dei laLut / Egumteatro il più noto testo beckettiano. “Aspettando Godot” spinge la scrittura a livelli tali da renderne quasi impossibile il confronto diretto, rivoluzionando il linguaggio scenico e postulando forse il suo esaurirsi. Sfida dei co-produttori del Festival, oltre a dare nuovamente voce a Vladimiro, Estragone, Pozzo e Lucky, era quella di attualizzare l’opera e renderla attiva in uno spazio scenico insolito ed extra-teatrale, adattato e studiato con e per la messa in scena. Ad ospitarla una sala del complesso museale Santa Maria della Scala lo scorso 23 giugno. Pareti in mattoni rossi e porte di vetro a contrasto divengono lo sfondo dell’azione, con la cavea di legno scarna e suggestiva, in cui gli attori si muovono fra gli spettatori. Niente e nessuno è fuori dal gioco. Sedie dalla vernice scrostata, scarpe abbandonate, neri cappelli e valige di un tempo, stridono in momenti di rumoroso silenzio, diventando personaggi concreti. I registi Annalisa Bianco e Virginio Liberti costruiscono uno spettacolo che cura ogni elemento e riunisce la tricotomia attore-personaggio-spettatore. Il pubblico diviene parte integrante della scena: è personaggio per Vladimiro e Estragone ad attenderlo in platea e, come essi stessi dicono, massa di scheletri sul palco nel secondo atto, che si apre con Massimiliano Poli / Vladimiro solo, ancora in attesa di Godot, di Estragone o forse di un impossibile evolversi degli eventi. La parola, le pause e i silenzi beckettiani, che sconvolsero Parigi nel 1953, prendono forma concreta grazie alla costruzione dei personaggi, resi finalmente reali e tangibili, pur rispettati nella loro originaria impronta surreale. Vladimiro ed Estragone (Francesco Pennacchia) sono divertenti e malinconici nel loro rapporto, senza mai essere scontati; sfaccettato è il Pozzo di Angelo Romagnoli, comico nelle sue espressioni, dinamico nel coprire ogni punto del palco e tragico, ma mai patetico, al rientro nel secondo atto. Il piccolo messaggero bambino, che annuncia per ben due volte la mancata venuta di Godot, padroneggia la scena e l’attenzione con il suo “Si signore, no signore”. Straordinario Sergio Licatalosi, che cattura ogni singolo sguardo sviscerando un Lucky espressivo e interiorizzato. La figura più magnetica della serata dona un personaggio tridimensionale e sofferente nella sua follia, con una gestualità centellinata in ogni più piccolo movimento ed una mimica facciale che trasfigura i tratti del volto. Sicuramente uno degli spettacoli più poliedrici del Festival, che racchiude comico, tragico e indagine, attualizzando le tematiche di Beckett e avvicinandoci tutti a i suoi personaggi.»
Copio anche le note che ho trovato su Voci di Fonte, perché mi sembrano davvero interessanti (i corsivi sono già nell’originale):
«Tutto è stato gravato dalla monotonia di messe in scena, anno dopo anno, sempre uguali, a causa della decisione dell’autore e dei suoi eredi di controllare non soltanto l’integrità delle frasi ma anche le ormai vetuste idee registiche presenti nelle didascalie. Questa comprensibile autodifesa contro i registi disubbidienti, incuranti dell’autentico spirito beckettiano, ha trasformato la novità in una noia sempre uguale e la vitalità di un tempo in morte museale. Ecco la beckettiana rottura con la tradizione diventata negli anni una tradizione della rottura e a volte un’autentica rottura tradizionale… “Aspettando Godot” si è trasformato in una mummia artistica, da conservare in un teca a temperatura costante, lontana dagli odori e dai turbamenti della vita. E se diciamo tutto questo è per dichiarare apertamente la nostra profonda tristezza per un grande testo teatrale diventato un mediocre testo letterario che si agita sul plateaux, ridicolo come quelle persone che non accettando lo scorrere del tempo vogliono restare sempre uguali.»
Sapete come la penso in merito: quando valuto una messinscena non mi interessano le intenzioni, ma solo i risultati ottenuti. Quando vesto i panni del webmaster di www.samuelbeckett.it, in particolare, non mi lascio influenzare in nessun modo dalle note di regia: pertanto sia la dichiarata estrema fedeltà al testo sia la dichiarata volontà di rottura non mi fanno né caldo né freddo fintanto che non vedo lo spettacolo. L’unica cosa che non tollero (anche di questo ne ho già parlato) è la pretesa di far discendere la libertà di messinscena dallo stesso Beckett, perché questo è oggettivamente falso (postilla 1: non è questo il caso della produzione di cui si parla qui, le note di regia in questo senso sono infatti molto oneste; postilla 2: l’invito, ai figli di questo Beckett “libertario” che non è mai esistito, è sempre lo stesso: leggetevi le biografie e la vasta aneddotica in merito).
Dal momento che la messinscena firmata da Bianco-Liberti non l’ho vista non dirò nulla. Mi sembra però, nella recensione della Meniconi e nelle note di regia, di notare un elemento nuovo che contribuisce decisamente a ravvivare il dibattito sul tema. Lo riassumerò così: i testi di Beckett devono essere rielaborati per salvarne il valore. In altre parole, la messinscena consapevolmente difforme dei testi di Beckett non è un atto per rivendicare la libertà del regista nei confronti del testo, bensì un atto di amore nei confronti del testo. Stravolgo il Godot affinché la sua quintessenza torni a brillare. Se lo metto in scena così come Beckett l’ha scritto cinquant’anni fa, invece, lo ricopro di una patina di polvere che ne offusca lo splendore.
Ripeto: è una teoria originale, e c’è da rifletterci su.