Le voci dei bambini fanno tremare la casa di Hamm
Castri firma una regia impeccabile di «Finale di partita» con una piccola trasgressione al testo che ne amplifica le potenzialità.
Ieri sera, al Teatro India di Roma, due anziane signore del pubblico si sono alzate a distanza di dieci minuti l’una dall’altra durante la prima mezz’ora del Finale di partita per la regia di Massimo Castri. Prova che Beckett è venuto nel teatro per portare la spada e non la pace. E, battute a parte, quelle due signore si sono perse uno spettacolo coi fiocchi.
Passa quasi la voglia di recensire una messinscena che è sostanzialmente impeccabile (by the way: mi è capitato di vedere degli Aspettando Godot che ancora devo digerire, mentre con Finale di partita, in genere, è più difficile prendere fregature). Quello che posso dire è che io non ci ho visto tutte quelle influenze cechoviane che vi hanno scorto critici teatrali più titolati del sottoscritto (anzi: critici teatrali tout court visto che il sottoscritto non lo è) e mi ostino a pensare che quello di Beckett sia un teatro del silenzio che si pone, anzi, agli antipodi del teatro del grande russo.
Quella che segue, insomma, non è una recensione, ma tre cose tre le voglio dire.
La prima. Castri fa una trasgressione sublime. Una trasgressione sola (perché per il resto, appunto, la regia è impeccabile e fedelissima al testo), ma che non si dimentica. Il piccolo scarto di genio che si e ci concede è il seguente: quando Clov apre la finestra per far sentire il mare ad Hamm dall’esterno proviene un chiassoso vociare di bambini e di genitori che li chiamano. Suoni d’ambiente rubati a chissà quale cortile scolastico o parco giochi. Dura venti secondi ma dà i brividi. Eccolo qui uno di quei casi in cui si trasgredisce il sacro verbo beckettiano e si fa centro. In quei venti secondi crolla tutto, si precipita a testa indietro in un vortice di senso. Allora non siamo in un bunker post-atomico, allora l’universo non è mortibus, allora la natura non è finita. Allora (è questo che ci suggerisce Castri con l’eleganza discreta di un rumore di fondo fuori scena che produce però l’effetto di uno tsunami semantico) Hamm e Clov sono due pazzi che si sono autoreclusi nella loro villa. In quei venti secondi Finale di partita viene cancellato e riscritto. Castri, ti porto nel cuore.
La seconda. Belle le luci di Resteghini che avvolgono di un gelido biancore kubrikiano la scenografia di Maurizio Balò (che invece si riallaccia senza sforzo al simbolismo degli scacchi). Ma anche Balò si e ci concede un colpetto di genio, non dirompente come quello di Castri, ma comunque notevole: veste Hamm e Clov nello stesso modo esplicitando finalmente il vero rapporto che lega i due: ovvero, l’uno il servo-padrone dell’altro. Non male.
La terza. Pagelline degli attori. Grande prova di Vittorio Franceschi (Hamm) che forse gassmaneggia un po’ troppo in alcuni punti (ma ci sta, ci sta. E poi: me lo sono sognato o in un paio di passaggi ha scimmiottato impercettibilmente la parlata del ragionier Ugo Fantozzi? E ci sta anche questo). Bravi bravissimi Diana Hobel e Antonio Giuseppe Peligra nei ruoli di Nell e Nagg (anzi, mi sbilancio e dico che la Hobel è fino ad ora la migliore Nell che ho avuto occasione di vedere). Chi invece non mi ha convinto, purtroppo, è stato Milutin Dapcevic (Clov), non per suo fallo, credo, ma per l’impostazione che gli ha dato Castri. Se il Clov diretto da Branciaroli era troppo sopra le righe questo qui invece soffre di pressione bassa. È un personaggio difficile Clov, secondo me il più critico di Finale di partita, e sebbene Dapcevic esca vittorioso dal cimento con il monologo finale ottiene risultati assai meno esaltanti nel resto della performance.
Nulla di personale, Dapcevic, è che io ho nel cuore il Clov di Valerio Binasco in quella che per me è LA messinscena italiana di Finale di Partita (sempre sia lodato Carlo Cecchi che ne firmò la regia nel 1995). Binasco è il Clov perfetto. E attori miei, giovani o vecchi che siate, presenti e futuri, ne avete di strada da fare per arrivare a quel livello.