Il rischio di un Beckett senza metronomo
Per l'allestimento in scena al Teatro Argentina di Roma il regista Mario Sciaccaluga parte con le migliori intenzioni, ma dilata (troppo?) i tempi di recitazione.

È un peccato quando, partendo da premesse tanto virtuose, si arriva a risultati deludenti. Purtroppo l’Aspettando Godot firmato da Marco Sciaccaluga, attualmente in scena al Teatro Argentina di Roma (ci resterà fino al 30 gennaio), non è riuscito a convincermi.
«Accusato di essere un perfetto esempio di negatività, astrattezza e assenza di speranza – dice il regista – questo capolavoro è, al contrario, divertente ed intriso di quella stessa gioia di vivere che aveva il suo autore innamorato della musica e della pittura». Giusto. «Regola fondamentale per accostarsi a questo spettacolo – continua Sciaccaluga – è non dare importanza a chi sia o possa raffigurare Godot. Lo spettatore deve invece concentrarsi sul tema dell’attesa». Giustissimo. È il mio stesso identico punto di vista. Poi però vado a vedere la messinscena e qualcosa non funziona.
Nulla da eccepire sull’interpretazione dei due autori protagonisti (anche se forse Ugo Pagliai/Estragone gigioneggia un po’ troppo, mentre è sempre meravigliosa la voce di Eros Pagni/Vladimiro). Buona, anche se non decisiva, l’idea di conciare Pozzo e Lucky come i drughi di Arancia Meccanica (bravo Roberto Serpi/Lucky anche se il migliore in scena è senza dubbio Gianluca Gobbi/Pozzo). Non posso che approvare, infine, la decisione di essere sostanzialmente fedele al testo. E anche le piccole invenzioni drammaturgiche sono pienamente giustificate.
Ma allora cosa c’è che non va? Il ritmo. Come ammette lo stesso regista, Aspettando Godot è, anche, un testo divertente ed è noto che la base della comicità è il ritmo. Una battuta eccellente detta fuori tempo non fa ridere nessuno. Sciaccaluga sceglie la via della dilatazione, come certi direttori d’orchestra che scelgono (ed è un loro diritto, del resto) di interpretare una sinfonia classica diminuendo i battiti del metronomo. Il problema è che a volte si ha l’impressione che il tempo salti del tutto. Anche nel momento più succoso (il vasto brano del primo atto in cui tutti e quattro i personaggi sono in scena) si ha quasi l’impressione di assistere a una jam session dove i singoli solisti, a un certo punto, perdono di vista il tema su cui improvvisare. Tante sfumature del testo vanno perdute, altre – meno decisive – appaiono. Tra il pubblico i più smaliziati restano perplessi, i neofiti cambiano più volte posizione sulle poltroncine (quello che mi viene sempre in mente in questi casi è: ok, io conosco il testo a memoria, ma chi sta assistendo al suo primo Aspettando Godot ora starà innocentemente pensando: ah, dunque Beckett ha scritto questo).
Si arriva alla fine del secondo atto estenuati, con Vladimiro ed Estragone che sembrano davvero non poterne più di essere lì. Il che, come critica, è paradossale, perché è vero che nel testo i personaggi non ne possono più, ma la loro spossatezza dovrebbe appassionare lo spettatore, invece qui eravamo tutti esausti: personaggi, pubblico, attori.