Beckett e il tempo: quattro riflessioni
Alcune considerazioni nate dopo l'intervento su Samuel Beckett che ho tenuto all'Accademia di Brera.
Mercoledì scorso ho avuto l’onore di tenere una lezione su Samuel Beckett all’Accademia di Brera. Mi sono soffermato soprattutto sulla cosiddetta arcimedialità beckettiana e più precisamente sul rapporto esclusivo che l’autore ha avuto con i singoli mezzi di espressione con cui si è cimentato (in particolare: teatro, radio, televisione, cinema). Ovviamente ho spaziato molto e al termine della lezione (quasi tre ore, poverini…) ho detto agli studenti che se volevano ulteriori chiarimenti potevano tranquillamente contattarmi via mail. Così è stato. Qualche giorno fa mi è stato chiesto di approfondire l’analisi della funzione del tempo in quattro opere beckettiane: Aspettando Godot, Giorni Felici, L’ultimo nastro di Krapp e Respiro. Ci ho ragionato un po’ su e ho scritto alcune considerazioni. Dal momento che le note che ho redatto potrebbero interessare anche altri, oltre a rispondere direttamente via mail a chi mi aveva interpellato ho deciso di pubblicare il testo anche qui sul blog.
Per comodità userò le seguenti abbreviazioni: R = Respiro; AG = Aspettando Godot; K = L’ultimo nastro di Krapp; GF = Giorni felici.
Intanto partiamo dal dato di base e cioè la durata media di messinscena dei singoli testi. R dura 35 secondi (contati); AG è l’opera più lunga e può arrivare anche a due ore; K e GF oscillano tra l’ora e l’ora e mezza.
In R il piano temporale è simbolico. La brevità della rappresentazione rimanda alla brevità percepita dell’esistenza. A me piace associare questo testo alla battuta di Pozzo in AG (“Partoriscono a cavallo di una tomba. Il giorno splende un istante ed è subito notte”). L’esperienza biologica della specie umana, simbolizzata da un ciclo completo di respirazione (inspirazione / espirazione), viene rappresentata come racchiusa tra il grido-vagito della nascita e il grido-lamento della morte.
Perché rifiuti e non ossa?
La scena è cosparsa di rifiuti che vengono illuminati con una luce la cui potenza segue quella del suono del respiro. Ho sempre trovato singolare la scelta della massa di rifiuti come unico elemento scenografico, perché il “rifiuto” è un prodotto della società industriale. Dunque questo copione, forse il più astratto di Beckett, rimanda invece a un evo riconoscibile della storia. (Perché rifiuti e non ossa, che sarebbero state storicamente universali?, mi sono chiesto spesso).
AG è, anche dal punto di vista dell’analisi temporale, il testo più complesso. La data di ambientazione non è dichiarata ma è ragionevole supporre che si collochi alcuni anni prima della data di stesura dell’opera (1948–1949). L’età dei due protagonisti non è indicata esplicitamente ma sappiamo che soffrono di molti mali tipici della vecchiaia. È plausibile supporre che abbiano sessanta, settant’anni. Dal momento che in un punto del testo Vladimiro dichiara che sarebbe stato bello, quando ancora erano giovani, essere tra i primi a gettarsi dalla Torre Eiffel (inaugurata nel 1890) ecco che diventa plausibile collocare l’azione scenica ai primi decenni del Novecento.
Difficile invece misurare l’intervallo di tempo che separa i due atti. Tutto lascia supporre che il secondo atto si svolga all’indomani del primo, ma alcuni elementi sono cambiati troppo radicalmente affinché possa essere passata una sola notte: l’albero in scena ha messo le foglie, Pozzo è visibilmente invecchiato ed è diventato cieco. È logico pensare che questa ambiguità degli intervalli temporali sia voluta. Vladimiro ed Estragone attendono Godot per un tempo indefinito all’interno del quale ogni giorno è uguale – o meglio estremamente simile – all’altro.
Per spiegare Beckett è spesso utile ricorrere a concetti geometrici. Qui torna comodo il concetto dell’asintoto che tende a un determinato limite (l’arrivo di Godot, nel nostro caso) senza mai toccarlo. Beckett mette in scena due punti (atto I e atto II) di questa retta che tende all’arrivo di Godot, ma non è detto che questi due punti debbano essere contigui. Tra l’atto I e l’atto II di AG a me piace pensare che esista una serie di “atti impliciti” composta da un atto I.1, seguito da un atto I.2, seguito da un atto I.3 e così via, che noi non vediamo in scena, ma che conducono inevitabilmente all’atto II. Ipotizzo allora che quando nel secondo atto Vladimiro si stupisce del fatto che Pozzo non ricordi il loro incontro del giorno precedente non si riferisca all’incontro cui lo spettatore ha assistito nel primo atto bensì a quello che deve essere avvenuto nell’ipotetico (e non rappresentato) atto I.n che precede immediatamente il secondo.
Dal punto di vista allegorico – senza volermi addentrare nel gioco dello svelamento dell’identità di Godot (resto convinto che Godot sia realmente Godot, cioè un ricco possidente terriero che potrebbe davvero offrire un tetto e un pasto caldo a Vladimiro e Estragone ma che ogni sera, alla fine, decide di non palesarsi. Non credo che Beckett abbia voluto nascondere nel personaggio assente di Godot la metafora di Dio, della fortuna, del destino, o di chissà che altro) – trovo particolarmente interessante la riflessione che fa Annamaria Cascetta nel suo saggio Il tragico e l’umorismo:
Quel che si deve fare è ‘passer le temps’: l’espressione, ripetuta più volte, assume il rilievo di una chiave: passare il tempo, ma anche protendersi oltre il tempo.
Passare il tempo o oltrepassare il Tempo?
L’opportunità, la necessità quasi, di passare il tempo, di ingannare la noia dell’attesa di Godot, è una costante del testo. Un esempio su tutti: lo scambio di battute che Vladimiro e Estragone fanno nel primo atto, subito dopo che Pozzo e Lucky hanno lasciato la scena. Riferendosi a quel movimentato incontro Vladimiro dice: “Ci ha fatto passare il tempo”. Estragone, di rimando: “Sarebbe passato comunque”. Di nuovo Vladimiro: “Già, ma non così rapidamente”.
Senza scomodare Einstein è difficile qui non riconoscere l’idea della relativa percezione dello scorrere del tempo a seconda del contesto. Quasi che a fronte di certe condizioni lo spaziotempo possa accartocciarsi su stesso e permettere il raggiungimento di punti che in condizioni normali sarebbero inaccessibili.
Mi riallaccio allora all’analisi di Cascetta per sottolineare come un’espressione innocua come “passare il tempo” possa anche essere letta, in AG, come “(oltre)passare il Tempo”, con tutti i significati (anche religiosi) che una simile interpretazione comporta.
L’idea della retta temporale da cui estrarre due punti da mettere in scena lasciando allo spettatore il compito di ricavare per interpolazione quel che accade nel segmento che li separa torna anche in GF (e non solo: uno schema simile lo troviamo anche in Commedia e nel teleplay Quad). Impossibile dire quanto tempo sia trascorso tra il primo atto, in cui Winnie è conficcata nella terra fino alla vita, e il secondo, in cui l’unica parte che affiora è la testa della protagonista.
Qui l’ambientazione, rispetto a AG, è totalmente surreale (letteralmente “surreale”, anche dal punto di vista artistico, perché alcuni hanno evidenziato un parallelismo con un’immagine del film surrealista Un chien andalou di Luis Buñuel in cui si vedono alcune donne conficcate nella sabbia).
Da notare che se da un lato l’azione scenica si svolge in un tempo non storico, viene comunque mantenuta la rigorosa scansione giorno/notte in entrambi gli atti, grazie al doppio suono del campanello: il primo sveglia Winnie e la strappa dal sonno per rigettarla nella sua terrificante condizione; il secondo indica la fine del giorno e intima a Winnie di abbandonare il suo soliloquio (il marito Willie, infatti, abbandonato in una cavità del terreno dietro di lei, appare poco interessato ai discorsi della moglie) e tornare a dormire.
In un ipotetico terzo atto, Winnie completamente sotterrata continuerebbe a pensare che è trascorso un altro giorno felice.
Dong-Ho Sohn, in un saggio disponibile on line, nota come il tessuto temporale lungo cui si svolge l’azione sia frammentato. Una delle caratteristiche di GF è infatti la continua interruzione dello scorrimento. La protagonista si interrompe frequentemente, inizia un discorso e non lo porta a termine o – anche se più raramente – viene interrotta da suo marito. Il tempo di GF, dunque, è un tempo ciclico (la scansione giorno/notte che si ripete in modo evidente), frammentato e al tempo stesso continuo (primo atto: Winnie interrata fino alla vita; secondo atto: fino al collo; anche qui siamo liberi di ipotizzare un terzo atto con una Winnie totalmente ricoperta di terra. E, anche là sotto, Winnie continuerà a pensare che, tutto considerato, quello appena trascorso è stato un altro giorno felice…).
E concludiamo con K che, rispetto ad AG e GF (e a molte altre opere di Beckett per cui vale lo schema di rappresentazione di due particolari istanti t1 e t2 di un dato arco temporale), rappresenta una piccola eccezione. Intanto perché ci troviamo di fronte a un atto unico e soprattutto perché abbiamo un riferimento temporale assoluto: l’aggettivo ultimo presente nel titolo. Lo spettatore dispone fin da subito di un’informazione inequivocabile: sa di assistere alla registrazione dell’ultimo nastro di Krapp. A differenza di quanto accade nelle altre opere qui non è lecito ipotizzare un seguito.
L’ambientazione qui è più realistica rispetto a GF e si avvicina a quella di AG. Curiosa l’indicazione di scena che apre il copione (“Tarda sera, nel futuro”). Krapp potrebbe essere vissuto in qualunque periodo storico e sarei portato a immaginarlo contemporaneo di Vladimiro ed Estragone, ma la presenza del registratore a bobine (che il protagonista usa fin da giovane per affidare il suo diario ai nastri magnetici) fa supporre che ciò che noi vediamo in scena sia collocabile temporalmente molto più in là.
In Krapp il riferimento temporale è assoluto: sappiamo fin dal titolo che quel nastro che vediamo registrare in scena sarà l’ultimo.
Il tempo interno alla drammaturgia disegna la parabola esistenziale del protagonista, che da giovane era un ambizioso artista e che oggi è un vecchio fallito. Tutto il testo è giocato sul contrasto tra il borioso entusiasmo del Krapp giovane, che noi conosciamo solo attraverso la voce che esce dal registratore, e i commenti amari e sprezzanti del Krapp vecchio che – nella condizione in cui è – non può fare altro che considerare il giovane se stesso un perfetto cretino.
Di nuovo, qui, il tempo si aggomitola: in un unico momento noi vediamo il Krapp vecchio e ascoltiamo il Krapp giovane. Va anche detto però che il vero concetto chiave per interpretare K non è tanto quello del tempo quanto quello della luce. Nei taccuini di produzione della messinscena di K per lo Schiller Theater di Berlino (1969) Beckett scrisse esplicitamente che la matrice culturale del testo era la dottrina manicheista e in particolare il concetto della separazione della luce dal buio. È uno dei rarissimi casi in cui Beckett ha voluto fornire una chiave di interpretazione di una sua opera (probabilmente l’unico caso in cui tale chiave è scritta nero su bianco di suo pugno).