The business of being Beckett
Un saggio di Stephen John Dilks tenta di sfatare il mito del Beckett riservato e disinteressato al successo. Con qualche forzatura di troppo.
Samuel Beckett fu davvero un genio puro, interessato solo alla perfezione della sua arte e lontano dalle tentazioni del successo e del denaro (come racconta la quasi totalità delle biografie e delle testimonianze)? O non fu invece un abile manager di se stesso, un artista che sapeva dosare con calcolata astuzia quali e quante fotografie farsi scattare, e in che modo diffonderle, affinché contribuissero a fare della sua immagine – e di conseguenza della sua opera – un prodotto con un valore di mercato sempre più alto? È per rispondere a interrogativi come questi che Stephen John Dilks ha scritto il suo Samuel Beckett in the literary marketplace (Syracuse University Press, 2011), dettagliata ricerca di quasi 400 pagine che pare abbia creato qualche imbarazzo (al punto da impedire a Dilks di citare passaggi dell’epistolario dello scrittore irlandese) nella Samuel Beckett Estate. Quasi tutti gli studi beckettiani parlano di Beckett come di un santo. Quello di Dilks fa eccezione e dunque l’ho letto con molta curiosità. Alla fine, però, credo che il ricercatore statunitense, pur partendo da alcuni dati di fatto innegabili, abbia forzato un po’ la mano per cercare di dimostrare la sua tesi.
Dilks parte da un assunto che a me già sembra discutibile: cioè che studiosi, appassionati e critici facenti parte della “cerchia” di Beckett abbiano diffuso nel tempo l’idea di un Beckett disinteressato al successo e al denaro. La mia percezione, dopo anni di letture di biografie e saggi dedicati allo scrittore, è semmai quella di un artista impaurito dagli effetti secondari della notorietà (l’idea di essere disturbato da fan, giornalisti e importuni di qualunque categoria, il dover perdere tempo a rifiutare richieste e proposte poco interessanti, l’essere invitato a partecipare a eventi noiosi, eccetera). Questo sì. Un aneddoto su tutti: il fatto che nel suo buen retiro di Ussy Beckett fece installare una linea telefonica che consentiva esclusivamente di effettuare chiamate e non di riceverle.
Il denaro e il successo sono sempre state, invece, due palesi fissazioni. E basta leggere le biografie per capirlo (che poi i biografi parlino di Beckett come di un asceta, ripeto, è vero. Ma il lettore ha comunque la possibilità di interpretare autonomamente i fatti). Almeno fino al 1950 (l’anno in cui morì sua madre), Beckett fu il figlio squattrinato di una famiglia benestante che – a differenza del fratello – non stava combinando niente di redditizio nella vita. Basta leggere le lettere, appunto, dei primi decenni della sua vita, per capire quanto Beckett non vedesse l’ora di diventare ricco e famoso.
Dilks, insomma, dice delle cose vere, che però erano già note. Ma per farle apparire come tesi inedite e scomode enfatizza i toni eccessivamente morbidi delle biografie ufficiali.
E veniamo alle fotografie. Dilks insiste molto su un episodio in particolare. L’autorizzazione che Beckett concesse nei primi anni Ottanta affinché venisse ritoccata una sua foto e lo si ritraesse con un bavaglio per un campagna pubblicitaria di Index on censorship, l’organizzazione inglese a favore della libertà di parola (è la stessa foto che appare anche sulla copertina del saggio di Dilks). L’autore del saggio vede in questa scelta di Beckett una mossa per rafforzare la sua fama di poeta del silenzio e per giocare sull’effetto sorpresa (nessuno si aspettava che l’austero Beckett accettasse di farsi vedere imbavagliato su grandi manifesti pubblicitari). Quasi che fosse una pubblicità di Beckett anziché una pubblicità con Beckett.
Dilks arriva a sostenere che quel manifesto con il bavaglio servì anche a promuovere l’ultima pièce beckettiana (Catastrofe, del 1982. Uno dei personaggi è appunto un prigioniero, e c’è una battuta in cui si allude all’ipotesi di mettergli un bavaglio). Questo però è difficilmente sostenibile. Il teatro di Beckett, all’epoca, non aveva bisogno di pubblicità alcuna. Dopo il successo intercontinentale di Aspettando Godot (dal 1953 in poi) e più ancora dopo la vittoria del Nobel (1969) Beckett poteva permettersi artisticamente qualunque cosa.
Pensare che Beckett controllasse maniacalmente la diffusione della sua immagine a fini di marketing è un’idea un po’ esagerata. Beckett era uno scrittore di mestiere, e tanto basta. La sua immagine faceva parte del suo lavoro (che poi i biografi abbiano sempre insistito sulla sua riservatezza è più un problema dei biografi che di Beckett). Sicuramente, poi, Samuel Beckett era vanitoso, ma fa un po’ sorridere leggere i passaggi in cui Dilks sottolinea, per avvalorare la sua tesi, come tutte le numerose foto di Beckett siano studiate e in posa. Nulla di strano, visto che si è sempre trattato di foto scattate da professionisti.
Samuel Beckett in the literary marketplace è comunque lodevole per la grande quantità di dati che Dilks ha reperito, dagli aneddoti sui retroscena di molti scatti fotografici fino all’elencazione puntuale delle cifre relative ai diritti d’autore e alle quantità di copie vendute di alcune opere, compresi i costosissimi libri d’artista a tiratura limitata che Beckett iniziò a “produrre” da un certo punto della sua carriera in poi. Il titolo perfetto per questo saggio, insomma, sarebbe stato una frase della prefazione firmata da Stanley Gontarski: the business of being Beckett.