Nelle parole degli altri

Osborne e i bottoni di Beckett

Il compositore statunitense racconta il suo incontro con il drammaturgo nel bar di Boulevard Saint-Jacques.

Negli anni Ottanta, il compositore statunitense William Osborne si cimentò con la trasposizione in musica delle opere teatrali di Samuel Beckett. Sul blog di Jan Herman ho trovato il racconto dell’incontro tra Osborne e Beckett narrato dallo stesso Osborne. Ne riporto qui una libera traduzione. (FP)

di William Osborne

Ho passato sette anni della mia vita a trasporre in musica il teatro di Samuel Beckett. Alla fine del 1987 raccolsi tutti quegli spartiti e alcune incisioni e le lasciai nella buca delle lettere dell’appartamento di Beckett. Sapevo che era un tipo schivo, quasi misantropo. Non mi aspettavo che mi rispondesse e mi dimenticai della cosa. Alcune settimane dopo trovai un biglietto nella mia posta. Stavo quasi per buttarlo via insieme a un pacco di pubblicità, quando mi saltò agli occhi la firma: Samuel Beckett.

Diceva che aveva apprezzato il mio lavoro e l’esecuzione. Per “esecuzione” lui intendeva la performance. Sosteneva che il suo lavoro non potesse essere interpretato ma solo eseguito. Diceva anche che una delle esecuzioni non gli era piaciuta. La definì «un’esecuzione in tutti i sensi» (e qui trovai la sua passione per i giochi di parole). Aggiungeva che qualora mi trovassi a passare per Parigi gli avrebbe fatto piacere incontrarmi.

Ovviamente trovai subito un pretesto per andare a Parigi.

Ci sedemmo in un caffè di fronte a casa sua e parlammo esattamente per un’ora. Beckett era solito dare appuntamenti al bar azinché nel suo appartamento. In questo modo se l’incontro lo indisponeva poteva senza problemi alzarsi e andarsene. Indossava un grande soprabito e non se lo tolse, così pensai che avesse intenzione di andarsene il prima possibile. Invece sembrò provare piacere per la nostra chiacchierata. Ogni tanto slacciava uno dei bottoni del soprabito e alla fine del nostro incontro il soprabito era quasi completamente sbottonato. Mi chiesi se il numero dei bottoni aperti fosse un metro per misurare il successo di un appuntamento con Samuel Beckett.

Parlammo di molte cose. Beckett era appassionato di tennis e siccome all’epoca vivevo in Germania mi chiese qualcosa su Boris Becker. Sapevo che gli piacevano i lieder di Schubert così gli regalai un cofanetto con una versione del ciclo del Winterreise realizzata da Peter Pears e Benjiamin Britten. Gli domandai se conosceva quella versione e mi disse di no. Sembrava felicissimo di quel regalo, quasi me lo strappò dalle mani. Parlammo della sua amicizia con James Joyce e mi parve felice di ricordare i vecchi tempi.

(Potrei aggiungere che il motivo per cui regalai a Beckett il Winterreise di Pears/Britten fu perché davo per scontato che già possedesse l’eccellente versione di Dieskau, ma anche perché Joyce aveva una passione per i tenori irlandesi e il modo di cantare di Pears si avvicinava molto a quello stile. Mi sembra di ricordare che Joyce di tanto in tanto portasse Beckett ad assistere all’esibizione dei suoi tenori preferiti. Immaginavo che Joyce avesse influenzato i gusti di Beckett in questo senso. Pensavo anche che Beckett fosse interessato alla scena teatrale inglese alla quale Pears e Britten avevano contribuito molto. Insomma, per chissà quale di questi motivi Beckett fu felicissimo di ricevere il mio regalo).

Beckett è stato sempre celebre per non tollerare modifiche alle sue indicazioni di regia. Ed era ancora più intollerante quando si trattava di adattamenti musicali. Ma fu piuttosto clemente verso i miei sforzi. Disse che non amava le trasposizioni musicali del suo teatro perché “la musica vince sempre”.

In effetti, per 500 anni la cultura occidentale ha cercato di creare un teatro musicale che integrasse in modo armonico musica, parole e azione scenica, ma ha sempre fallito. Come dimostra la storia dell’opera lirica, la musica non solo vince, ma stravince. Per un drammaturgo della sensibilità di Beckett, immaginare le sue parole soccombere sotto il dominio della musica doveva essere inaccettabile.

Una pagina dello spartito di William Osborne per la trasposizione musicale di "Giorni felici"

Una pagina dello spartito di William Osborne per la trasposizione musicale di “Giorni felici”

Comunque, dissi a Beckett molto onestamente che stavo cercando di creare un genere di teatro musicale dove la musica non vincesse. Sembrò incuriosito dalla cosa. Il mio obiettivo è stato sempre quello di creare una completa integrazione di musica, parole e teatro dove tutti e tre gli elementi abbiano la stessa importanza. Ne parlammo per un po’.

Beckett scrisse i suoi testi con una sensibilità musicale estremamente raffinata, che è il motivo per cui mi attraggono così tanto. Si aspettava che i suoi testi fossero recitati con un certo ritmo, ma non poteva averne mai la certezza e immagino la sua frustrazione per molte messinscene che non dirigeva di persona. Nelle mie partiture, il testo oscilla liberamente tra cantato e parlato e ho sempre indicato con accuratezza il tempo musicale di ogni passaggio parlato. Penso sia stato questo il motivo per cui Beckett volle incontrarmi dopo aver visto i miei spartiti. Penso che ci fosse la possibilità di realizzare qualche lavoro insieme, ma il nostro incontro avvenne poco prima della sua morte, quando la sua salute era già molto deteriorata.

Passai quei sette anni a trasporre musicalmente i testi di Beckett con la speranza di imparare a scriverne autonomamente di miei. Cominciai a provarci subito dopo il mio incontro con lui. Inutile dire che non riuscii mai, neanche lontanamente, ad avvicinarmi alla bellezza e al senso delle sue parole. E così nel mio lavoro progressivamente la musica assunse sempre più importanza. E’ davvero difficile impedire alla musica di vincere.

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