Beckett alla fine del mondo
Max O'Rover, fondatore di italish.eu e spudorato fiancheggiatore di samuelbeckett.it, ci racconta il suo pellegrinaggio alle isole Aran per assistere all'incredibile messinscena in gaelico di "Giorni Felici"
L’estate appena conclusa ha visto Inis Oírr, la più piccola delle Isole Aran sulla costa ovest d’Irlanda, diventare teatro naturale di una delle più ambiziose e coraggiose messe in scena di uno dei capolavori del teatro di Samuel Beckett: Giorni Felici. «Happy Days» è diventato per l’occasione «Laethanta Sona»: la rappresentazione si è tenuta infatti “as Gaeilge”, in gaelico irlandese.
ItalishMagazine c’era e il diario di questa esperienza – scritto “live” in inglese da Max O’Rover e pubblicato qui di seguito in italiano – è diventato l’occasione per un nuovo evento online del San Patrizio Livorno Festival: una chiacchierata diretta dal sottoscritto, con Max O’Rover e gli attori Claudio Monteleone e Sarah Rondina, che con Beckett, e Giorni Felici in particolare, si sono cimentati.
Una chiacchierata sul perché Beckett sia ancora oggi così attuale, sul perché abbia persino senso andare ad ascoltarlo su un’isoletta remota, recitato in una lingua che non si capisce neanche.
(Federico Platania, samuelbeckett.it)
Il mio diario di Laethanta Sona.
di Max O’Rover
Questo post sarà un diario della mia esperienza con Laethanta Sona. Un’esperienza che avrà in sé qualcosa di un altro lavoro di Beckett: Waiting for Godot.
Perché succederà due volte.
Muintir Chonamara.
Sono passati otto giorni dalla mia seconda volta per Laethanta Sona, sabato scorso.
Niente è mai lo stesso per due volte. Lo sappiamo da Beckett: magari solo una foglia, ma niente mai è esattamente uguale.
Lo stesso vale anche per Laethanta Sona.
Lo vedevi, mentre il piccolo aereo partiva dall’Aerfort, che sarebbe stata una bella giornata.
Il sole: un sole non adatto alla pelle irlandese. Sembrava d’essere in Italia. Pietraie a parte. Beckett a parte.
Come ha detto Fergal (ciao, Fergal!): come pubblico, abbiamo avuto la possibilità di condividere il disagio fisico di Winnie e Willie sotto un cielo impietoso.
Si stava benissimo, in realtà.
Ma lo sai cosa voglio dire.
Poiché era la mia seconda volta, poiché avevo già esperito Laethanta Sona, ho deciso questa volta di concentrarmi maggiormente sull’esperienza delle altre persone che stavano assistendo.
Molti di loro avevano il vantaggio della lingua dalla loro. Potevano ridere per quello che diceva Winnie.
Mi hanno fatto tornare in mente un mio vecchio amico.
Un publican. Sì: è irlandese.
Ho sempre pensato che quello del publican fosse un suo travestimento. Avrebbe potuto essere uno dei più importanti filosofi postmoderni. Era semplicemente troppo pigro per quello (non sono parole mie, quelle sulla pigrizia: sono sue).
Ricordo di aver avuto una volta una conversazione con lui su Molloy.
È divertente.
Ha detto.
Divertente davvero.
Le persone che stavano “godendosi” Laethanta Sona insieme a me stavano confermando alcuni pensieri su cui ho rimuginato negli ultimi due decenni.
L’umorismo irlandese è un animale a sé stante.
E ha una fluidità sociale che amo.
Anche se, forse, le cose stanno cambiando (ho trovato molto interessante una cosa che Roddy ha detto di recente: quando era giovane, era perfettamente normale amare il calcio e Flann O Brien allo stesso tempo. Adesso è diverso), vedere le famiglie – o almeno, pezzi di famiglie – godersi insieme Beckett è stato uno spettacolo bellissimo per me.
Ci sono voluti due voli per riportare quella stanca, beckettiana dozzina sull’isola meno isola. Sulla “terra principale”. In Irlanda, insomma. All’aerfort, ho iniziato a scherzare su un volo “Aer Beckett” tutto per noi.
E tutte le conseguenze godottiane che avrebbe una compagnia aerea del genere…
Ricordo due “famiglie” che stavano appena tornando alle loro case non lontane, in linea d’aria, da Creig an Staic. Da Beckett.
Ne ho visto la bellezza. La bellezza di famiglie che erano andate all’aeroporto regionale, avevano camminato, avevano “beckettato”, poi avevano di nuovo volato, poi alla fine se ne stavano tornando a casa.
Una bellezza che mi sapeva di Irlanda.
Quel posto che chiamo casa anche se non riesco a capirne la “vera” lingua.
Mi rifaccio spesso a quel: “casa è dove ti capiscono”.
Bene: casa a volte può essere anche dove non capisci cosa dice la gente del Connemara.
Ma, aspetta: quella signora ha appena detto An Cheathrú Rua!
So cosa vuol dire!
So da dove viene!
E ho anche una storia, su Carraroe e la sua maglia GAA.
È stato davvero un altro giorno paradisiaco.
Prossimamente, Laethanta Sona al teatro Samuel Beckett di Dublino.
Rimanete sintonizzati, gente.
Slán tamaillín. Il giorno del debutto.
Lascio il B&B per prendere l’autobus per Inverin. Sono l’unico passeggero. È l’inizio di un viaggio breve e surreale.
Abbiamo trascorso dei bei giorni in bicicletta (non bici, come vorrebbe il Nostro) in quella zona, nel 2007.
È successo qualcosa di brutto subito dopo il nostro ritorno in Italia. Nella mia memoria (il passato, il passato, di nuovo…) addirittura solo poche ore dopo essere tornati.
Il sapore amaro della colpa: perché è anche amaro quando in realtà non è neanche colpa tua? – mi è subito tornato in bocca.
La prima tappa del mio viaggio di oggi, l’inizio di quello che è diventato – il gioco di parole è voluto – un giorno felice, davvero, è stato surreale. Quel sapore amaro, per nulla mitigato dall’essere circondati da tanto liath.
Ho imparato questa parola as Gaeilge – grigio – leggendo La Veglia / The Gathering di Anne Enright. Non ricordo la citazione esatta, ma ricordo di aver aggiunto un commento a ciò che la Enright diceva.
Sulla costa occidentale dell’Irlanda ne hai ancora di più di liath: il cielo, il mare e anche le pietre sono in grigio.
Sì: può essere il set perfetto per praticamente l’opera omnia di Beckett.
All’aerfort, i miei ricordi personali si fondono con alcuni pezzi di The Guard. Non una Brownie, lì. Una Dillinger.
Sto andando a vedere Laethanta Sona, dico all’impiegata del desk. Perché, poi, la necessità di spiegare perché sono lì?
“Lovely”, risponde lei. Adorabile
Ribatto: penso che non si possa applicare l’etichetta “adorabile” a qualcosa di Beckett, se mi spiego.
E leì: oh, sì: so esattamente cosa intendi.
L’halla aerfort (giusto?) è molto più bella dell’ultima volta che ci sono stato.
È il momento di andare.
Una breve sosta a Inis Meáin prima di raggiungere Inis Oírr. È interessante come proprio questi brevissimi viaggi ti diano (diano a me, almeno) il senso di lontananza dell’Irlanda occidentale. Quell’occidente solitario…
Questo posto ha le sue regole. Il tempo scorre in modo diverso (un intrigante cenno, qui, al concetto di “eterno presente” del Gaeilge e di come questo diventi – almeno nella mia testa – il fondamento del linguaggio extraterrestre in Arrival) e tu non sei più il numero quattro sull’aereo. Sei Cair, ora.
Un paio di chilometri dopo, raggiungo Aras Eanna.
Non ho mai visto Raymond Keane nel mondo reale prima d’ora. Questo tipo qui ha i baffi.
Quindi è davvero Willie. Cerca di andare in scena come Willie senza baffi e il fantasma di Sammy lascerà Cooldrinagh e verrà da te portando incubi terribili.
Incubi in cui non puoi muoverti, ovviamente.
È un piacere incontrare un po’ più tardi Sarah Jane Scaife, la regista. Sto decisamente iniziando a entrare in vena di Laethanta Sona e, dopotutto (scusami, Caitlín!) ho il mio bagaglio pieno di storie irlandesi mal confezionate (anche quella sull’isola sbagliata).
Quello che viene dopo è il teatro.
È Beckett.
No, aspetta, non esattamente: devi prima attraversare uno stretto boithrín, un pezzetto del labirinto magistralmente indagato da Robinson, e poi sei, finalmente, nella testa di Beckett.
Il palcoscenico, quella pietraia (crag, questo non è un crugán: non c’è abbastanza terreno, direi) potrebbe essere esattamente ciò che intendeva Beckett, ciò che Beckett intende con i suoi paesaggi desolati.
Liath. Un sacco di liath, in quel cervello. Brillante, splendido, meraviglioso, sorprendente. Ma liath, nondimeno.
Non dirò nulla, qui e ora, del teatro.
O meglio: per adesso dirò solo quello che ho detto a Sarah Jane subito dopo: è un lavoro commovente e affascinante. Ragazzi, ovviamente dovete condividerlo con il vecchio Sammy: ma maithú: ben fatto, bravi, davvero.
Mi sono sentito commosso, alla fine. Lo sforzo inutile di Willie Mi ha commosso. Mi ha profondamente colpito la sua (la nostra di tutti?) assoluta inefficacia.
Non dirò altro, non qui. La recensione arriverà. E, forse, si spera, in futuro arriverà un’occasione italiana per godersi il potere di Beckett come Gaeilge.
Ma ora torno all’inizio del secondo atto.
Attento che passeggiando per il boithrín per arrivare al “teatro”, hai già visto mucche, cavalli, la loro merda, ribes nero, mirtilli, erba, fiori.
E pietre. Molte pietre.
Quando inizia il secondo atto, alle mie undici, alla sinistra dei poveri Winnie e Willie, sul bordo delle pietre che limitavano l’esistenza del “teatro”, un uccello, probabilmente un giovane gabbiano, ha catturato la mia attenzione. Ha seguito Giorni Felici per un po’.
Lo so, era uno spettatore inconsapevole, ma non tale per gli occhi di chi lo guardava, quell’uccello. Quell’uccello, tutte le pietre inconsapevoli dintorno, tutte le farfalle inconsapevoli dintorno.
Ho avuto la sensazione che, poiché per niente e nessuno su questa Terra esiste una cura per quella stessa esistenza: gabbiani, farfalle, pietre, noi spettatori, Laethanta Sona tutto e l’immobilità di Winnie fossero un’ode all’empatia, non importa chi o che cosa tu sia.
Il diario del “prima”
-7 giorni: come ho cominciato.
I libri e le mappe di Tim Robinson mi hanno affascinato dal momento in cui ne ho appresa l’esistenza: tanto da tradurre in italiano la mappa di Inis Mór.
Ero affascinato dal concetto stesso di isole² che definisce per me le Aran.
Quella cosa del livello – meta che porto con me dai miei studi – di una vita fa – di Bateson, una “cosa” che mi sembra così appropriata, ricca, così iper-reale per tutto ciò che ha a che fare con l’Irlanda. E iper-reale² quando si tratta di quelle isole di un’isola che le Aran sono…
Sono sempre stato affascinato dalla densità ontica della loro essenza, così – almeno per me – evidente dalla ricca semantica della loro topografia, indagata così a fondo – e magnificamente – da Robinson.
Ho finito per scrivere storie delle Aran, ambientando lì un paio dei miei libri.
Ho finito per avere momenti personali cruciali su quelle isole.
E anche momenti divertenti: finire sull’isola “sbagliata”, per esempio; o viaggiare insieme a mucche e fusti di birra.
Le Aran: non è affatto difficile immaginare Beckett guardando quel terribile, bellissimo paesaggio e dire:
Qui tutto è strano. [Giorni felici]
Non vado sulle Isole da quasi undici anni, dopo averle visitate abbastanza regolarmente (non frequentemente, ma regolarmente) dal 2001.
So di avere degli affari in sospeso lì. So che devo ancora tornare a Crag na gCat. Non potevo immaginare che sarei “dovuto” tornare sulle Aran proprio a causa di Beckett, e mentre il mondo intero sta ancora affrontando una pandemia.
Ma intravedo Laethanta Sona – happy days, giorni felici – davanti a me.
-6 giorni e nessun riparo.
Permettetemi di condividere con voi un estratto dalla newsletter dell’Abbey di Dublino dedicata a Laethanta Sona:
Il terreno nel luogo dello spettacolo è irregolare e può essere difficile per persone con problemi di mobilità.
Dovrebbero essere indossate calzature adeguate.
Non c’è riparo dagli elementi durante lo spettacolo, quindi devi essere preparato per una varietà di potenziali condizioni meteorologiche (pioggia, sole, caldo, freddo).
E, beh: complimenti a chi l’ha scritto, dato che per le mie orecchie è una serie di informazioni alquanto beckettiana!
Dovrebbero essere indossate calzature adeguate
Dicono.
Ma, aspetta. Il concetto stesso di “calzature adeguate” è un’illusione. Perché:
C’è ovunque gente che biasima gli stivali per le colpe dei propri piedi. [Aspettando Godot]
Giusto?
Abbiamo, qui, un assaggio così interessante e così contemporaneo di saggezza beckettiana.
Perché viviamo nell’era di troppi, troppo grandi (l’astronave di Bezos, l’avete presente?) strumenti che ci mostrano che, sì: è un problema di piedi (o qualsiasi altra cosa…), non di stivali.
Ma questi sono Giorni Felici, no?
Torniamo a Beckett, allora.
Non c’è riparo dagli elementi
Dicono.
E sì, è impossibile non pensare a:
Siamo sulla Terra, non c’è cura per questo! [Finale di partita]
Già: sei, siamo, sulla Terra. Non abbiamo riparo.
E sì: se ti trovi in quell’angolo remoto della Terra (lontano da dove, dopotutto? Non è – come ci ricorderebbe Mr B., qui – solo una questione di prospettiva?), quella piccola isola, solo un minuscolo, ultimo, scoglio di quel grosso pezzo di Terra che è l’Eurasia, è probabile che piova.
Quella terribile, solida (secondo il mio amato Böll) pioggia irlandese.
E lo dice qualcuno che, in questo preciso momento, sta letteralmente prendendo il sole. Ma è l’Irlanda e la pioggia è ciò che ti aspetti, sempre.
E, quando non piove abbastanza spesso, speri.
Porterò comunque il mio poncho. E le mie scarpe da trekking.
La suola della scarpa sinistra è consumata. Non posso biasimarla. Lo so benissimo che è il mio piede, quello da incolpare.
-5 giorni: La Capitale delle Rovine.
Non sono uno studioso di Beckett. E io non sono Federico (non so se gliel’ho già detto, ma mi piace molto quello che dice: “ho deciso di finire Beckett”. Suona davvero figo). Il mio interesse per Beckett è un “sottoprodotto” del mio interesse per la cultura irlandese.
È infantile, lo so. È come sostenere una squadra.
Ma, in fondo, anche Beckett ha giocato con l’idea della “squadra irlandese di fantasy rugby degli scrittori”; e, dopotutto, dato che sono sulla terra e non c’è cura per questo, come affronto l’incurabile è affar mio, giusto?
Eppure, anche se non sono uno studioso di Beckett e nonostante abbia (avessi…) per lui solo un interesse di “seconda classe”, la sua voce è diventata sempre più importante per me negli ultimi anni.
E probabilmente anche più irlandese.
Non essendo uno studioso di Beckett, ho finito per andarmi a guardare le pagine di Katherine Weiss su Happy Days (nel suo The Plays of Samuel Beckett, Methuen Drama, Critical Companions) solo oggi.
Perché un teatro (un teatro, dopotutto) irregolare e impegnativo?
Perché nel cervello di Samuel Beckett, il “clic” che poi è diventato Happy Days è stato l’esito del bombardamento di Saint-Lô durante la seconda guerra mondiale.
A quanto pare, una donna è sopravvissuta al calvario bloccata esattamente come Winnie.
In una lettera, Beckett affermò che la gente aveva ribattezzato Saint-Lô in “La capitale delle rovine”.
A proposito, sembra un titolo fantastico per un romanzo o un film, questo vero?
Altre due cose interessanti che ho imparato oggi da Katherine Weiss su Happy Days.
1: In una prima bozza, la “notizia” del giornale riguardava l’Irlanda. E i preti, naturalmente.
2: Winnie è una sopravvissuta. Non so – nessuno lo sa: non è nello spettacolo – che cosa Winnie abbia dovuto affrontare. Ma ne so qualcosa sull’essere un sopravvissuto.
Sono abbastanza fortunato da non essere un sopravvissuto a qualcosa come un bombardamento.
O al dover attraversare il Mediterraneo su un barcone.
Ma nondimeno.
Sono un autore “spubblicato”. Comunque, continuo a scrivere: per me stesso, almeno. È uno degli strumenti che uso per non uccidere nessuno. Il giardino è un altro di quegli strumenti.
Mentre scrivo, mentre scrivo quello che scrivo e mentre scrivo perché lo scrivo, mi metto spesso nella posizione di dover affrontare un passato travagliato.
Di personaggi.
Di me stesso.
Non è la stessa cosa, dopotutto?
Weiss ci racconta come Winnie sia l’immagine “perfetta” della sopravvissuta: sa perfettamente che il suo passato era ben lungi dall’essere felice. Eppure, il passato è ciò che ci definisce (ed eccolo di nuovo, Mr B., già per la seconda volta in questo diario, che mi sussurra all’orecchio la frase di lui che preferisco: Il passato mi batte dentro come un secondo cuore).
Il passato ci rende ciò che siamo. Ancora più importante: ci rende ciò che non siamo. Che non vogliamo essere. Perché per ogni sopravvissuto c’è uno specchio: la persona da cui sei dovuto sopravvivere.
Winnie, lo sai già: non puoi andare avanti, andrai avanti.
-4 giorni: pubblicità.
È il fine settimana, dopotutto: consentimi una nota più leggera.
E una domanda da fan di Samuel: compreresti merchandising beckettiano?
Sì, come quello della foto.
Lo “produco” anche, io. Uso personale, ovviamente. Ma tant’è.
Mi piaceva avere una citazione di Beckett come prima cosa che vedi se entri in casa mia (la primissima cosa, in realtà, la vedi da fuori: il numero civico as Gaeilge: trí cinn déag).
Entri, e puoi lasciare le scarpe proprio accanto a una targa che cita Beckett, gli stivali, i piedi.
E poi poster, cartoline, calamite da frigo (grazie MoLI!)…
Probabilmente la Lego ha raggiunto uno status un po’ troppo mainstream per me per essere ancora interessato.
Ma dovessi mai presentare un progetto a Lego Ideas, ecco: sarebbe probabilmente un diorama che collega le scene di Aspettando Godot, Endgame e Happy Days.
Ho sempre pensato che il mondo di Beckett fosse inquietante e spietato. E, soprattutto, uno: uno solo. Quando Clov guarda fuori dalla finestra, sono sicuro che può vedere Vladimir, Estragon, Winnie, Willie… E la bicicletta di Molloy, se guarda bene da un cannocchiale.
Biciclette. Sì. Anche se il libro “perfetto” in stile bicicletta è, ovviamente, Il Terzo Poliziotto di Flann O’Brien, I gadget beckettiani “perfetti” che mi piacerebbe davvero avere sono legati alla bicicletta (non alla bici: mi raccomando!!!).
Immagina due distinti set di badge che puoi applicare ai raggi delle ruote delle biciclette.
Il primo:
non posso andare avanti
andrò avanti.
Il secondo insieme:
Fallisci di nuovo
Fallisci meglio.
Si pedala, le ruote muovono i distintivi, il mondo ha più Beckett in sé.
Che giorno paradisiaco sarebbe…
-3 Cupla focal. E orgoglioso delle stesse.
Il mio irlandese è abbastanza buono da permettermi di godermi appieno Laethanta Sona?
Assolutamente no.
Dopotutto:
Il mio mongolo è abbastanza bravo da permettermi di godermi appieno un concerto di The Hu? No, ma me lo sono proprio goduto il concerto all’Academy, lo scorso 16 febbraio 2020. Sai: ai tempi in cui il mondo era ancora “normale”.
Il mio vocabolario mongolo ora è composto da due parole. So come dire “che strano”. E conosco un’altra parola, ma poi se te la rivelo dovrei ucciderti…
Il mio vocabolario irlandese è più ricco di quello mongolo, e ancora molto, molto lontano dal farmi capire Beckett in irlandese, di sicuro.
O anche solo le previsioni del tempo, in irlandese, se è per quello.
La mia passione per le lingue e le parole risale a molto tempo fa. A “Avanti Irlanda”.
Quando ho cercato di farmi una ragione dell’alfabeto cirillico. Ero così orgoglioso di sapere che “CCCP” non era affatto c-c-c-p.
Sono così orgoglioso di sapere che la parola russa per sciopero ha origini italiane. O conoscere l’etimo di “cobalto”, e “grog”.
Con il Gaeilge, la connessione è, naturalmente, più profonda. E speciale: è Irlanda, bellezza.
Ho comprato la grammatica irlandese con vocabolario nel 2000. Ho Lo Hobbit as Gaeilge – An Hobad – e adoro il fatto che tu possa andare a Long Lake sia nella Terra di Mezzo che nel Donegal.
Ho assolutamente adoratoil libro di Manchán Magan (e se davvero potrò dare un piccolo contributo a portarlo in italia-no ne sarò felicissimo. Il libro di Manchán è strabiliante quando si tratta di collegare le parole e la struttura del Gaeilge con la fisica quantistica, per dire).
Non so nulla della relazione tra Beckett e Gaeilge. E, studiosi, per favore: cominciate a scrivere i vostri saggi, cominciate a raccontare tutto e il contrario, di questo! 😉
Scherzi a parte: ho trovato interessante ‘So much Gaelic to me’: Beckett and the Irish Language – Journal of Beckett Studies – Vol. 24, n. 2 (2015), pp. 163-179 (17 pagine) – Alan Graham.
La prima cosa geniale è la rilevanza linguistica della “irish-izzazione” delle toilette (etichettate non con men e women, ma con fir e mná). E ho trovato molto interessantissimo il concetto della “complicata estraneità” di Beckett verso l’irlandese.
Eppure, c’è qualcosa che non sapremo mai: cosa penserebbe Beckett di Laethanta Sona? E se il linguaggio non può (o, forse, non deve) conferire identità, cosa potrebbe pensare Beckett dello strano tizio italiano che va a guardare Laethanta Sona sapendo che non lo capirà?
Penso che gli sarebbe piaciuta, ’sta storia.
Ma sono di parte.
-2 Interludio.
Un altro lunedì paradisiaco.
Perché, voglio dire: a volte i fine settimana sono lunghi e strani periodi di tempo.
Perché, voglio dire: gli ultimi due anni non sono stati tutti rose e fiori.
Quando dico che la voce di Beckett è diventata sempre più importante per me negli ultimi anni, lo dico sul serio.
Mi ricordo di me stesso, secoli fa, guardando la recensione di una stella su cinque data da qualcuno ad Aspettando Godot, su anobii.
Probabilmente era il 2009.
Era, probabilmente, attorno a quel periodo la prima volta che ho sentito un legame personale con Beckett.
L’idea di scrivere un thriller su un serial killer che uccide le persone che danno cattive recensioni alle opere di Beckett, quella è venuta dopo, invece.
Quello che provavo era in realtà una profonda invidia per il nostro Mister Una Stella.
Perché devi essere fortunato se puoi non relazionarti con Aspettando Godot.
Significa che non hai mai dovuto aspettare qualcosa che non arriverà mai.
Non sono stato così fortunato: proprio quella una-stella mi stava facendo capire che Beckett mi stava parlando nelle sue opere. Erano state scritte me. Vabbè. Lo sai cosa voglio dire.
Una stella e Beckett ora faceva parte della mia famiglia. O Pantheon, forse. O quel che è.
Uno dei nostri, come diresti senza tante cerimonie a Dublino.
Non ho mai avuto, ovviamente, una reale opportunità di interagire con lui. Ma ora ho la mia discreta quantità di storie “personali” di Beckett.
Conosco le sue lettere perdute, perdute dopo (non “a causa”, bada bene) di un incidente aereo.
Il suo (più del fratello, in realtà) ufficio in D2.
E anche una storia molto personale: quando sono dovuto andare in ospedale dopo (o a causa di..?) All That Fall, qui a Dublino.
Ma torniamo all’ultimo non facile weekend.
“The Chair”, su Netflix. E io, quasi commosso dalla menzione del vecchio Sammy insieme a Camus e Pavese.
Combattenti pur sapendo che combattere è inutile.
-1 Albuquerque, Galway. Beckett.
Godot è arrivato. Io sono Godot, Galway là dove avrei dovuto essere.
Con il covid è cambiato tutto,
dice la padrona di casa del B&B.
Forse.
Il Corrib, il sole – quando si mostra – sono gli stessi del 1999 o del gennaio 2020.
Nel 1999 ho comprato la maglia dell’IRFU qui a Galway. Ho imparato Amhrán na bhFiann vent’anni dopo.
Ricordo la signora Kenny. La libreria era ancora nel centro della città (città? Cittadina?), lì ho comprato il mio Signore degli Anelli in inglese. Un anno dopo, probabilmente. Ricordo di aver chiesto a qualcuno (Tomás, probabilmente) dell’esistenza di LOTR come Gaeilge.
Non ancora – disse.
Un Hobad doveva bastarmi, anni dopo.
Probabilmente non sono un buon viaggiatore. Amo stare nei posti, ma non mi piace tanto andare nei posti.
A volte penso che tutto il trambusto per l’Irlanda sia stato una enorme scusa per saltare gli aeroporti. Sono già qui. Fatto.
Probabilmente non essere un buon viaggiatore significa anche che la notte prima di partire è sempre travagliata. Ho spesso problemi di sonno. Sempre, quando devo andare da qualche parte il giorno dopo.
Abbiamo guardato qualche episodio di Better Call Saul prima di andare a letto.
Sono sicuro, mentre guardo, che il motel schifoso e legato al cartello della droga sia una citazione Beckettiana.
Ma non era Worstward Ho. Era “solo” Westward.
Se il presunto cenno a Beckett aveva lo scopo di farmi dormire meglio, non ha funzionato comunque.
Ho sonnecchiato sull’autobus, e ora eccomi qui.
Non piove nemmeno ma, per ogni evenienza, ho rispolverato il mio cappello australiano, che è stato sulle Isole già dieci anni fa (Jaysis, dove vola il tempo?).
Ci aspetta una giornata paradisiaca.
Domani devo solo arrivare all’isola giusta (a un’altra volta le storie sulle isole sbagliate…). Mi sono mancate le Isole. Sono felice di tornare con Sammy, un mio vecchio amico.