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McGovern legge Beckett

Max O'Rover, il nostro uomo a Dublino, è andato ad assistere al reading beckettiano che Barry McGovern ha tenuto sabato scorso al Dalkey Book Festival. Ecco la sua recensione dell'evento (FP)

di Max O’Rover

Sabato 15 giugno ho avuto il privilegio di partecipare (insieme al mio amico beckettiano B.) a uno degli eventi più attesi (almeno per me, poiché coinvolgeva il “mio” Sam…) del Dalkey Book Festival, dove Barry McGovern, acclamato come uno dei più grandi interpreti di Samuel Beckett al mondo, ha eseguito una lettura unica di opere selezionate del Premio Nobel del 1969. La sala era gremita fino alla sua capacità di circa 200 posti. Giovani, anziani, famiglie.

Con i miei due compagni beckettiani, il già menzionato B. e Federico “samuelbeckettpuntoit” Platania, spesso discutiamo di quanto la rilevanza di Beckett sembri impossibile da sbiadire. Continuavamo a dirlo durante il covid. E poi, ora (come sempre…) ci sono guerre, rifugiati… (mi chiedevo: ma Didi e Gogo, due fuggiaschi, che fine farebbero, oggi?). Quindi, in un modo triste ma rassicurante al tempo stesso, è “normale” vedere quanto Beckett sia vicino a tutti noi.

Stavo solo pensando, mentre tornavo a casa mia non lontano da Cooldrinagh (perché, perché la devo mettere sempre sul personale, quando si tratta di Sam..?) che, finché ci sarà dolore di cui gli umani possono ridere, Sam avrà successo; e che, dovesse un giorno mai diventare irrilevante per la mancanza di dolore per tutti noi, sarebbe felice di sparire finalmente nel nulla che amava tanto. Quel nulla ontico, “presente” (ne stavamo chiacchierando casualmente, della presenza dell’assenza in Beckett, come nell’Irlanda occidentale, con il mio vicino di casa, F., poche ore prima del reading di McGovern. Ognuno ha i vicini che si merita…) che amava così tanto.

La performance di Barry non è stata solo una lettura; è stata una personificazione dell’arguzia, dell’umorismo e della profonda comprensione della condizione umana di Beckett. La sua selezione — un remix di passaggi dal romanzo Watt (sul quale aveva precedentemente lavorato in un suo spettacolo) insieme ad altre opere — ha catturato il pubblico con il suo humour nero e le sfumature esistenziali. In particolare, l’interpretazione di McGovern ha evidenziato il genio comico, tema forse meno discusso di altri, di Beckett. Ci sono stati momenti, come la menzione in puro black-humour da Lo sfrattato in cui mi sono ritrovato a ridere, insieme ad altri (anche se forse più per me che per gli altri…). Vabbè.

Non si linciano mai i bambini, i bebè, qualunque cosa facciano sono assolti in partenza. Io li lincerei con voluttà, non dico che ci metterei le mani, no, non sono un violento, ma incoraggerei gli altri e pagherei da bere alla fine.

Samuel Beckett, «Lo sfrattato» (Einaudi, 2001 – traduzione di Carlo Cignetti)

Per me, l’opera di Beckett è — sì, ancora — profondamente “personale”. Non solo per i temi universali che esplora, ma anche per i dettagli che evocano Dublino (Federico, ammettilo anche tu: era, è e sarà sempre un irlandese!).

Quando McGovern ha menzionato “l’orologio di Johnston, Mooney e O’Brien”, sono stato trasportato indietro di qualche anno nella mia vita, non in Leinster Street, dove si trovava la panetteria ai tempi di Beckett, ma a Finglas, dove si trova adesso il panificio Johnston, Mooney & O’Brien. Facile mettersi a giocare con l’idea che il pane abbia ancora lo stesso odore che Beckett poteva annusare. Meno facile immaginare Beckett, il sofisticato Southsider, visitare Finglas: un territorio decisamente più vicino a un altro dei miei scrittori irlandesi preferiti…

La performance ha riaffermato la mia convinzione circa la rilevanza perenne di Beckett. La sua esplorazione del terrore esistenziale combinata con le banalità quotidiane crea un arazzo che si sente, ancora una volta, attuale.

Il gran finale non poteva essere migliore di così: «Bisogna continuare, non posso continuare, non potrò che continuare.»

Complessivamente, l’abilità di McGovern nel suscitare risate attraverso la contemplazione delle assurdità della vita da parte di Beckett dimostra la sua maestria. Ciò che lo stesso Beckett potrebbe chiamare risus purus (in una parola la risata che ride — silenzio, per favore — di ciò che è infelice) è stata una testimonianza della ricchezza stratificata dei testi e della performance.

Concludendo la serata, non potevo fare a meno di sognare a occhi aperti di portare questa performance a Livorno, al San Patrizio Livorno Festival. Chissà…

Mentre la folla si disperdeva nella notte inesistente (l’indeterminatezza di tutto è tanto irlandese quanto beckettiana: sono le dieci di sera e c’è ancora molta luce; ma poi, sono le tre del pomeriggio ed è già buio…), sono tornato a casa usando la Dart. Sono sceso prima di Blackrock, la mia fermata preferita.
E se cogliete il riferimento, che fa paio con il linciaggio di cui sopra, siete veri beckettiani.

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