Beckett e la cultura della superficie
Uno studio di Antonio Sanges invita a un'interpretazione alla lettera delle opere beckettiane, a cominciare da «Finale di partita».
Chi sostiene da tempo che non c’è nessun “codice Beckett” da decifrare e che l’interpretazione letterale delle opere del grande irlandese sia preferibile a tante cervellotiche e spesso inconcludenti esegesi troverà conforto nel più che argomentato saggio di Antonio Sanges dal titolo Les jeux sont faits: la cultura della superficie. Beckett e il teatro della crisi pubblicato da Carla Rossi Academy Press nel 2023.
Lo studio di Sanges, distillato in un centinaio di pagine, attinge a una bibliografia assai vasta in cui compaiono nomi familiari a chi frequenta le pagine di Beckett (Badiou, Deleuze, Cohn, Frasca, Gontarski), ma anche riferimenti meno ovvi come quelli di Nigel Howard (teoria dei giochi) e Fredson Bowers.
Proprio un articolo di Bowers degli anni ‘60 contiene l’accuratissima analisi della trama dell’Amleto che Sanges usa per mostrare come sia possibile condurre un’analisi simile dei testi beckettiani stando alla lettera del testo più che ai suoi significati nascosti. Le opere prese in considerazione dallo studio di Sanges sono molteplici, ma finiscono sotto il microscopio soprattutto Aspettando Godot e ancor di più Finale di partita.
Se è vero che Aspettando Godot è «una commedia in cui non accade nulla. Per due volte» (come scrisse Vivien Mercier sull“Irish Times del 18 febbraio 1956), Finale di partita non è da meno. La scena è priva di accadimenti. Sanges – ed è un’intuizione ragguardevole – nota che perfino l’unico fatto rilevante della pièce, ovvero la morte di Nell (ancorché presunta), nell’economia del dramma non porta a nulla. Ai fini dell’eventuale sviluppo della trama, ammesso che di sviluppo si possa parlare, questo fatto è inutile.
HAMM: E allora che sia finita! (Clov si avvia verso la scaletta. Con violenza) Che salti in aria! (Clov sale sulla scaletta, si ferma, scende, cerca il cannocchiale, lo raccatta, risale sulla scaletta, punta il cannocchiale). D’oscurità! E io? Forse che sono mai stato perdonato, io?
CLOV: (abbassando il cannocchiale, voltandosi verso Hamm) Cosa? (Pausa). È per me che dici questo?
HAMM: (con ira) Un «a parte»! Idiota! E la prima volta che senti un «a parte»? (Pausa). Sto abbozzando il mio ultimo soliloquio.Samuel Beckett, «Finale di partita»
Sanges cita questo passaggio per proporre l’ipotesi che «dal punto di vista concettuale, ponendosi in un’ottica teoretica e critica, tutto Finale di partita è un esasperante “a parte”, nel senso che tutto ciò che viene detto non concettualmente recepito dai personaggi in scena, ma lo è letteralmente”».
Quello tra i quattro personaggi in scena, insomma, non sarebbe altro che uno small talk, la conversazione spicciola che si fa tanto per passare il tempo, senza che si presti reale attenzione al contenuto delle espressioni.
In questo senso assume pieno significato il concetto di “superficie” proposto da Sanges nel saggio. La superficie in Beckett è la tabula rasa che resta quando al teatro viene sottratto ciò che ne determina l’essenza: l’azione scenica. In assenza di un’azione scenica tocca alle parole farsi carico della responsabilità dell’azione. Ma la parola in Beckett è parola dell’impotenza (si veda in questo senso il saggio Con onesto amore di degradazione di Luigi Weber, Il Mulino, 2003 o la lunga intervista rilasciata da Gabriele Frasca a samuelbeckett.it nel 2008), la parola è il mezzo che usa l’artista per “fallire”.
Non esistono simboli dove non c’è l’intenzione
Samuel Beckett, «Watt»
Conclude dunque Sanges: «I personaggi di Finale di partita, in toni lirici o elegiaci, discutono di amore, dolore e morte, ma senza che la conversazione e la riflessione giungano a un reale approfondimento». La chiave di lettura migliore per un testo simile resta dunque l’osservazione della superficie emersa del testo scoraggiando il lettore dal trovare un senso più profondo (impossibile non pensare al celebre apoftegma contenuto nei 37 addenda al romanzo Watt: «Non esistono simboli dove non c’è l’intenzione»). In questo senso Le jeux sont faits può essere considerato un saggio che tenta una via interpretativa, se non del tutto inesplorata, quanto meno poco battuta dell’opera di Beckett.