Teatro

L’ultimo nastro di Oldman

Enzo Mansueto ha assistito al Krapp diretto e interpretato da Gary Oldman andato in scena a York lo scorso mese. Pubblichiamo qui la sua recensione.

di Enzo Mansueto

La messa in scena di Krapp’s Last Tape sulle tavole dello York Theatre Royal, con l’interpretazione, la regia e la scenografia di Gary Oldman, chiusasi lo scorso 17 maggio dopo un mese di repliche, non solo si aggiunge alla trafila di performance di grandi star cimentatesi nella stessa pièce, ma arricchisce una tendenza attuale: quella di affiancare ai titoli di Beckett in cartellone nomi di interpreti di fama planetaria, provenienti dal cinema o da altri ambiti di grande richiamo, anche con l’intento di ampliare la platea – fuori dall’Italia, per la verità, già nutrita – del pubblico beckettiano.

Con Gary Oldman, la decisione di portare sul palco dello storico teatro di York l’atto unico di un sessantanovenne, che interagisce con la propria voce registrata su nastro trent’anni prima, si carica però di riflessi personali, poiché proprio su quel palco Oldman debuttava da professionista nel 1979, prima che il cinematografo lo rapisse, tracciandone per decenni voce e immagine in una miriade di ruoli pluripremiati, da Sid Vicious a Winston Churchill, da Dracula a John Cheever, oltre ai ruoli comprimari in pellicole dagli incassi stratosferici e alle più recenti affermazioni nelle serie TV. Eppure, lo scorso anno, alle soglie dei settant’anni, dopo una vita di eccessi, la star britannica ha avvertito l’esigenza di portare la sua famiglia a visitare il piccolo teatro dove tutto era cominciato, quand’era in parte altr’uomo da quel che è oggi. Da qui l’idea di ritornare dopo decenni sul palco – su quel palco – coproducendo un lavoro che, per vari motivi, appariva il più calzante per l’occasione.

(foto di Enzo Mansueto, York, 2025)
(foto di Enzo Mansueto, York, 2025)

L’interazione con il proprio passato personale non è nuova nella storia delle rappresentazioni di Krapp. Ricordiamo il nostro Glauco Mauri che, nelle tarde riprese dell’opera, a partire dagli anni Novanta, interagiva con la sua stessa voce giovane registrata per il Krapp del 1961. Del resto, l’interferenza in scena tra recitazione e vita, disturbata dalla mediazione del nastro magnetico, è geneticamente connaturata a questa operetta del 1958, sospesa tra il mimo e il radiodramma, un’installazione multimediale mascherata da monologo: un lavoro che Beckett pensò espressamente per una voce, con tanto di nome e cognome, quella dell’attore Patrick Magee, le cui registrazioni per la BBC di suoi spezzoni narrativi e drammatici tanto lo avevano impressionato.

Krapp è una perfetta prefigurazione dell’uomo mediale innamorato delle sue protesi.

Gabriele Frasca

Mosso da un perturbante entusiasmo tecnologico per il dispositivo che qui prende il centro della scena – il nuovissimo, ai tempi, registratore portatile a bobine –, Beckett buttò giù il Magee monologue, titolo col quale inizialmente si riferiva a quel breve dramma, col quale ritornava a scrivere, in prima stesura, nella lingua materna. Trapelava un trasporto equivoco, sadomasochistico, per il marchingegno che scorporava voce e memoria e che, via via, nelle storiche messe in scena, e soprattutto a partire dalle regie dello stesso Beckett, avrebbe portato il protagonista ad abbracciare la macchina dei ricordi: una «perfetta prefigurazione dell’uomo mediale innamorato delle sue protesi», ha chiosato Gabriele Frasca.

Questo pezzo di teatro è notoriamente tra i più “facili” di Beckett. Ma solo in apparenza. Facile, semmai, è il rischio col quale l’interprete scivola verso la clownerie, da un lato, e il patetismo sentimentale dall’altro, evocando il fantasma autobiografico di uno scrittore incline al fallimento: un tòpos melodrammatico. Gary Oldman, con misura estrema, del gesto, della mimica facciale, dell’intonazione, si tiene equidistante dagli estremi, giocando piuttosto coi silenzi ipnotici e l’immobilità sospensiva. La qual cosa, forse, raffredda l’interazione col pubblico, ma evidenzia nel dettaglio la chirurgia drammaturgica di Beckett, che all’espressione dell’interprete (a sua volta ascoltatore) aveva assegnato gran parte della resa teatrale dell’operetta, la tragicommedia dell’io nell’epoca della sua riproducibilità tecnica. Potremmo sospettare che la rinuncia alla teatralizzazione marcata del gesto, in questo caso, derivi dall’abitudine pluridecennale della star cinematografica di porgersi all’occhio magnificante della cinepresa, che ha forse anestetizzato in Oldman il controllo istrionico della performance dal vivo, il gesto esibito, la voce portata. Ma in effetti, tale misura (del vedersi visto, ascoltato) restituisce il distacco del vecchio Krapp da quel detestabile sé giovane.

Programma di sala del Krapp diretto e interpretato da Oldman (2025)
Programma di sala del Krapp diretto e interpretato da Oldman (2025)

Resta un dubbio malizioso: che il nome ingombrante domini la scena più dell’attore stesso, già chiamato in questo pezzo a sottrarsi dalla scena, spodestato da una voce senza corpo. Ma Oldman, sornione, pare giocare con le aspettative della platea: quanti sono convenuti per vedere il Krapp di Beckett e quanti l’Oldman da Oscar? Dubbio che appunto rimarca il fallimento dell’attor giovane, come del giovane scrittore Krapp, lo svanire nel tempo di speranze verdi, di aspirazioni e primi amori, per quanto artificialmente preservati, imbalsamati, dal nastro magnetico.

La messa in scena di Oldman aderisce per gran parte alle indicazioni beckettiane. Tra le deroghe più vistose alla stringente partitura vi è la scenografia, progettata da Oldman stesso. Staccato dal palcoscenico, il ritaglio di una stanza contornata di buio, come una scheggia da un’altra dimensione, ingombra di oggetti. L’atelier caotico di Francis Bacon o il letto di Tracey Emin o il futuro monticello di Winnie, un esplicito correlativo dei ciarpami della memoria, accumulata, archiviata, dimenticata: di Krapp, di Oldman, di ognuno. Nel soverchiante trovarobato deambula Krapp/Oldman, alla ricerca della scatola di latta con la bobina di trent’anni prima, il diario registrato di quell’anno, col racconto di un amore finito. E intanto, mangia banane, beve alla bottiglia, scorre le note del suo registro, si appresta a registrare il nastro dell’anno in corso, l’ultimo.

Magistrale la capacità di Oldman di chiamare all’ascolto, in una vicinanza intima, lo spazio intero del teatro, che si fa orecchio unico di quel nastro, di quell’addio all’amore acerbamente raccontato, e dimenticato. Ascolto e oblio.
Sulla scrivania, a prendersi il centro della scena, il magnetofono. Non uno qualsiasi, ma lo stesso magnetofono utilizzato precedentemente da Michael Gambon e John Hurt: una vera star elettromeccanica, altro che macchina attoriale, il cui occhio rosso (come quello di HAL 9000 dieci anni dopo) resta acceso, nel buio che cade, alla fine.
Gli applausi, esplicitamente proibiti dagli annunci di sala all’ingresso di Oldman in scena, scrosciano. Poi, svelta si forma la coda dei fan all’ingresso artisti per gli autografi sul merchandising. La Terra, che in sala aveva dato l’impressione di essere ormai disabitata, torna a popolarsi.

Enzo Mansueto

Enzo Mansueto (Bari, 1965) è poeta, critico letterario e musicale, saggista ed insegnante. Ha pubblicato le raccolte poetiche Descrizione di una battaglia (Scheiwiller 1995) e Ultracorpi (Edizioni d’if 2006). Nel 2024, per Cue Press, ha curato la prima edizione italiana di Beckett: un canone di Ruby Cohn.

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