L’innominabile
Titolo originale: L’Innomable Data di composizione: 1949 – 1950 Prima edizione: Les Editions de Minuit, Parigi, 1953 Edizioni italiane: Mondadori, 1965 – Mondadori, 1970 –Utet, 1973 – SugarCo, 1994 – Einaudi, 1996 – Einaudi, 2018 – Mondadori, 2023
L’Innominabile è il romanzo che chiude la trilogia iniziata con Molloy e proseguita con Malone muore. È opportuno ricordare che tra la stesura di Malone muore e quella de L’Innominabile (e dunque nel periodo tra la fine del 1948 e l’inizio del 1949) Beckett scrisse Aspettando Godot, l’opera che avrebbe reso il suo autore celebre in tutto il mondo ma che all’epoca era ancora sconosciuta al pubblico a causa dei continui rifiuti degli impresari teatrali.
Tra il secondo e il terzo capitolo della cosiddetta trilogia, dunque, si situa la stesura del capolavoro beckettiano per antonomasia. Per la prima volta Beckett lavora alla poetica successiva alla leggendaria “illuminazione del 1945” attraverso un testo teatrale e dunque attraverso gesti, luci, corpi, spazi e tempi. Tutto ciò che di “fisico” esiste nell’idea dello scrittore viene delegato a una dimensione concretamente “fisica”: quella del teatro. Forse per questo motivo L’Innominabile, la prima opera narrativa dopo Aspettando Godot, è anche il primo romanzo in cui Beckett si sente libero di giocare – più dei suoi predecessori – sui temi dell’astrazione e della rarefazione.
Prometeo in un dipinto del 1868 di Gustave Moreau. In un passo del romanzo il protagonista paragona la sua condizione al supplizio di Prometeo imprigionato sulle cime del Caucaso. Ma anziché un avvoltoio, è il linguaggio il suo tormento.
Se in Molloy vi era una vera e propria trama (addirittura “poliziesca”!) e in Malone muore persisteva un’ambientazione comunque riconoscibile e plausibile, con L’Innominabile ci spostiamo su un piano inafferrabile: l’io narrante è un essere in posizione seduta all’imboccatura di un breve corridoio inghiottito dalla penombra. I suoi occhi sono costantemente aperti (e da questi fluiscono lacrime quasi in continuazione). Non sa su cosa è seduto (sebbene ad un certo punto l’idea che si ricava è che sia seduto all’interno di una giara, come i futuri personaggi di Commedia), ma sa di essere seduto per via della pressione che sente sulle natiche e sotto le piante dei piedi. Le mani sono appoggiate sulle ginocchia. In questa immobilità indisturbata l’essere pensa e racconta a se stesso delle storie. I protagonisti di queste storie si chiamano Basile, Mahood, Worm. Ma in realtà si tratta sempre dello stesso personaggio che cambia nome. E, a un certo punto, non è più possibile distinguere la personalità dei personaggi narrati dalla personalità dell’essere che li narra a se stesso.
Per quanto il libro possa essere un’inesauribile miniera per dispute accademiche, per un lettore comune, anche fedele, L’Innominabile si avvicina pericolosamente a essere L’Illeggibile…
A. Alvarez, «Beckett»
Riguardo alle celebri ultime parole del romanzo, Alvarez compie la seguente osservazione: “È stato detto che la nota finale è in qualche modo speranzosa, che Beckett è il portavoce del carattere indomabile dello spirito umano. Forse. Ma, arrivato alla fine di un’ampia frase spezzata che chiude un paragrafo di più di centododici pagine, le parole ‘bisogna continuare, non posso continuare, e io continuo’ mi sembrano più minacciose che affermative“. Alvarez, come spesso accade, non è tenero con gli sperimentalismi di Beckett. E aggiunge: “Per quanto il libro possa essere un’inesauribile miniera per dispute accademiche, per un lettore comune, anche fedele, L’Innominabile si avvicina pericolosamente a essere L’Illeggibile…“.
Bair non è dello stesso parere: “Si tratta di un romanzo stranamente inquietante. La sofferenza dell’Innominabile viene trasmessa al lettore attraverso la costruzione, tecnicamente perfetta, del monologo“.
Luciano Berio (1925-2003). Il testo del terzo movimento della sua “Sinfonia” (1968) si compone di molti passi tratti da “L’Innominabile”.
L’importanza di questo romanzo fu sottolineata da uno dei principali esponenti del teatro italiano, Vittorio Gassman, che – come ricorda Cascetta – pur essendosi sempre tenuto lontano dalle opere teatrali di Beckett, a metà degli anni Sessanta decise di cimentarsi proprio con un adattamento de L’Innominabile. Ad affascinare Gassman fu “la coazione a distruggere la parola nell’attimo stesso in cui la si enuncia; e però anche la scommessa di parlarla ancora, quella parola slabbrata e sdrucita, come unico tentativo di sopravvivenza“. L’adattamento andò in scena per la prima volta al Teatro della Cometa di Roma, nel gennaio del 1967.
La sofferenza dell’Innominabile viene trasmessa al lettore attraverso la costruzione, tecnicamente perfetta, del monologo.
Deirdre Bair, «Samuel Beckett. Una biografia.»
Con L’Innominabile l’oggetto del romanzo diviene il romanzo stesso. “Le mie avventure sono terminate – dice l’io narrante in una delle prime pagine del romanzo – le cose da dire sono dette“. Sembra paradossale: le cose da dire sono dette. Quale scrittore sarebbe così folle da partire da un assunto simile? Eppure è proprio con L’Innominabile che l’evoluzione iniziata da Molloy e da Malone Muore giunge allo stadio di completa maturazione. La creatura narrativa beckettiana è ormai in grado di camminare con le proprie gambe ed esplorare le zone più impervie del silenzio.