Lo spopolatore
Titolo originale: Le dépeupleur Data di composizione: 1965 – 1970 Prima edizione: Les Editions de Minuit, Parigi, 1970 Edizioni italiane: Einaudi, 1972 – Einaudi, 1989 – Einaudi, 2010 – Mondadori, 2023
Non fu facile per Beckett giungere alla stesura definitiva di Le dépeupleur, una delle sue prose più riuscite. La primissima versione risale all’autunno del 1965. Nel maggio del 1966 il testo fu ripreso. Era il periodo in cui Beckett cominciò a soffrire di seri disturbi alla vista e scriveva in uno stato di ansia costante, non sapendo fino a quando i suoi occhi avrebbero retto per poter lavorare ancora. Nel 1967 due pagine di questa prosa apparvero con il titolo Dans le Cylindre sulla rivista Livres de France. Finalmente, nel 1970, si arrivò all’edizione definitiva.
Il testo rappresenta senza dubbio uno dei vertici della produzione in prosa di Samuel Beckett. Vi si trovano molte caratteristiche comuni ad altre sue opere narrative (il gusto geometrico della descrizione, l’attenzione ai dettagli di temperatura e luce, la presenza di personaggi allo stato terminale della loro esistenza, di nuovo i rimandi danteschi, di nuovo Belacqua) eppure tutti gli elementi qui concorrono alla costruzione di uno spazio narrativo più ambizioso. Se, infatti, l’impianto del testo ricorda quello di altre prose brevi come Immaginazione morta immaginate, Quello che è strano via o Bing, ci troviamo tuttavia di fronte a uno scenario molto più ampio e popolato da numerosi personaggi estremamente movimentati.
Ipotesi per la mappa del cilindro. Le proporzioni sono quelle indicate da Beckett. Delle circa venti nicchie se ne sono raffigurate cinque. La nicchia centrale e quella alla sua sinistra si immaginano collegate da una galleria.
Il luogo immaginato da Beckett è un cilindro di 50 metri di circonferenza e di 16 metri di altezza internamente rivestito di un materiale simile a gomma dura. Lungo la metà superiore della parete circolare si aprono approssimativamente venti nicchie in cui cercano di rifugiarsi i circa duecento esseri (Beckett raramente si riferisce ad essi come “uomini” o “esseri umani”) che popolano il luogo. Alcune nicchie sono collegate tra loro da gallerie. Gli esseri sono di entrambi i sessi e di tutte le età. Gli unici oggetti che hanno a disposizione sono delle vecchie scale a pioli che gli esseri usano per cercare di raggiungere le nicchie. Spesso staccano i pioli dalle scale e li usano per colpirsi.
Il narratore conduce con gelida accuratezza e con la consueta amara ironia l’analisi della vita all’interno di questo enorme formicaio. In più punti, durante la lettura, si ha come l’impressione di ascoltare il commento fuori campo di un documentario. Stesso approccio scientifico, stessa asetticità nel presentare anche gli aspetti più crudi. Il taglio televisivo più che cinematografico di questo testo viene sottolineato anche da Knowlson il quale elenca inoltre un grande numero di fonti di ispirazione, dall’Anatomia di Robert Burton al Garden of Cyrus di Thomas Browne, dal Rasselas di Johnson ai modelli platonici e neoplatonici.
“Cosa c’è di più bello del quinconce? Da qualunque parte lo si guardi presenta linee rette” (Quintiliano, “Institutio Oratoria”, VIII, 3). Il quinconce (unità di misura corrispondente a 5/12 di unità) può essere rappresentato graficamente con elementi disposti su file parallele e sfasati di mezzo passo. Le nicchie lungo la parete del cilindro sono disposte in questo modo.
Al di là di queste presunte ascendenze erudite, è difficile resistere alla tentazione di associare alcune immagini di disperazione e disumanità alle immagini altrettanto disperate e disumane (e tragicamente vere) dei campi di concentramento. Così come è difficile non scorgere metafore della condizione umana in passi come questo: “La stessa scala alzata verticale al centro del suolo farebbe guadagnare agli stessi corpi circa mezzo metro permettendo loro di esplorare con comodo la zona favolosa che si dice essere inaccessibile ma che in effetti non lo è per niente. Perché un simile uso della scala è concepibile. Basterebbe che una decina di volontari decisi unissero i loro sforzi per tenerla in equilibrio eventualmente coll’aiuto di altre scale fungenti da puntelli. Un attimo di fraternità. Ma se si escludono le vampate di violenza non conoscono la fraternità più di quanto la conoscano le farfalle. E ciò non tanto perché difettino di cuore o di intelligenza quanto perché sono tutti prigionieri del loro ideale“.
Il critico Alvarez, come spesso accade, non giudica troppo benevolmente questa prosa. “Sembra il rapporto di una Commissione ministeriale incaricata di fare un’inchiesta sulle condizioni esistenti nel Purgatorio“, afferma e definisce Lo spopolatore una prosa prolissa e lontana dalla purezza degli ultimi altri lavori. Aggiunge però una notazione interessante: l’intero testo è scritto con una punteggiatura regolare ma mancano completamente le virgole a beneficio dell’immediatezza delle proposizioni. Anzieu, dal canto suo, offre due interpretazioni psicoanalitiche: il cilindro è il magazzino dell’immaginazione con il suo fermento di idee ancora attive e di idee morenti, di idee che lottano e di idee che si rassegnano. Oppure il cilindro è metafora del ventre materno e del clima educativo che al tempo stesso modella e limita il pensiero.
Nel 1976, dopo aver ottenuto l’approvazione di Beckett, il gruppo newyorkese di avanguardia teatrale Mabou Mines realizzò una particolare messa in scena di questo testo: il pubblico veniva fatto sedere in uno spazio cilindrico da cui poteva osservare un cilindro in miniatura che replicava perfettamente quello descritto nella prosa, comprese le scale e le nicchie. L’attore David Warrilow recitava il testo e muoveva le varie statuine all’interno del cilindro.