Mal visto mal detto
Titolo originale: Mal vu mal dit Data di composizione: 1979–1981 Prima edizione: Les Editions de Minuit, Parigi, 1981 Edizioni italiane: Einaudi, 1986 – Einaudi, 1994 – Einaudi, 2008 – Mondadori, 2023
Il titolo lascia intendere una consequenzialità tra i due predicati: mal visto dunque mal detto, mal detto in quanto mal visto. Forse mai come in quest’opera, una delle più complesse e oscure dell’intera produzione in prosa di Samuel Beckett, l’autore lascia affiorare la sua idea di arte come fallimento inevitabile. Impossibile esprimersi compiutamente non (non solo) perché l’espressione è di per sè un atto imperfetto, ma anche perché la percezione stessa, che precede qualunque possibilità di espressione, lo è.
A vedere in modo fallace, nella fattispecie, è una vecchia donna che conduce una vita solitaria e vegetativa (come quasi tutti i personaggi di Beckett) in un casotto nel mezzo di una pietraia. Uniche occupazioni: l’osservazione del moto degli astri, e in particolare di Venere, e le visite regolari a una pietra tombale. La piana in cui sorge l’abituro della vecchia viene descritta come “spazio senza forma. Piuttosto circolare che altro comunque” e poi è composta da “due zone”. L’idea è che lo spazio abbia la forma di un cervello.
Già in Immaginazione morta immaginate Beckett aveva scelto come luogo della sua narrazione un ambiente con le stesse caratteristiche in cui i personaggi sembrano essere ospitati da due ipotetici emisferi cerebrali. In Mal visto mal detto la tesi è avvalorata dal fatto che a un certo punto l’autore descrive la radura pietrosa in cui si compiono gli ossessivi andirivieni della vecchia come “luogo detto del cranio“.
Uno dei due colossi di Memnone nella piana di Tebe (foto M. Lira). Memnone, personaggio omerico, fratello di Priamo, fu ucciso da Achille durante la guerra di Troia. La protagonista di “Mal visto mal detto” viene paragonata a questo colosso nel punto in cui si descrive la sua cena solitaria.
Tale definizione però apre un’altra via interpretativa (incredibile come Beckett inviti a desistere dall’interpretazione e al tempo stesso dissemini le sue narrazioni di segni): quella della simbologia religiosa. In questo senso Mal visto mal detto presenta numerosi appigli: oltre al “luogo detto del cranio” che è un modo di definire il Golgota, il monte su cui è avvenuta la Crocifissione, troviamo altre metafore: la radura è abitata da agnelli che senza pastore vagano incontrollati, la vecchia è circondata da dodici figure indefinite e quando si reca alla tomba spesso porta con sé una croce, nel casotto in cui vive ci sono pochissimi oggetti ma tra questi un allaccia-bottoni a forma di pesce (uno dei primi simboli con cui si rappresentava Cristo).
Quest’ultimo simbolo in particolare viene evidenziato da Knowlson che, come è suo uso, si cimenta soprattutto nello scovare i riferimenti autobiografici nascosti nei sessantuno brevi paragrafi che formano questa prosa. Secondo lo studioso, infatti, la vecchia sarebbe la madre di Beckett e la prosa sarebbe il tentativo dell’autore di ritrovare la figura materna perduta nella realtà e nei sentimenti. Il taglio tutto psicoanalitico di questa interpretazione non trova però riscontro nello studio altrettanto psicoanalitico condotto da Anzieu nel suo saggio.
Il bianco, che, come già detto in occasione dell’analisi critica di altre opere, è il colore che tinge tutta l’opera beckettiana, è anche qui protagonista. Le pietre, gli astri, il volto della vecchia, i suoi occhi ormai quasi privi di umore acqueo, gli agnelli, la nebbia, la stele tombale. Il bianco dilaga ovunque: “Il biancore. Ogni anno un po’ di più. Tanto varrebbe dire ogni istante. Ovunque ad ogni istante il biancore avanza“.
Lo spiazzo pietroso che ospita la narrazione viene descritto come uno spazio suddiviso in due zone che danno luogo ad una forma vagamente circolare. Un cervello?
Da un punto di vista stilistico Mal visto mal detto è un’opera di pregevole maturità compositiva, un incredibile intreccio di parole che costruiscono meticolosamente un’immagine, tanto che solo in parte se ne può gustare la bellezza se non si legge l’originale in francese (Beckett stesso si dedicò alla traduzione in inglese con notevole difficoltà). La narrazione è costellata di osservazioni che il narratore rivolge al lettore o più probabilmente a se stesso: “Attenzione” viene ripetuto in più punti del testo, oppure “Calma” e ancora “Passare oltre“. Fino a giungere alla maestosa conclusione: “Ciel terre et tout le bataclan. Plus miette de charogne nulle part. Léchées babines baste. Non. Encore un seconde. Rien qu’une. Le temps d’aspirer ce vide. Connaître le bonheur“. Nell’ultimo secondo prima del vuoto si assapora la felicità. Probabilmente l’unico lieto fine (sebbene sui generis…) dell’intera opera beckettiana.