Disiecta

Titolo originale: Disjecta
Data di composizione: 19291983
Prima edizione: Grove Press, 1984
Edizioni italiane: Egea, 1991

Nel 1983 la ricercatrice statunitense Ruby Cohn – che già da tempo era considerata un’autorità in campo beckettiano – propose a Samuel Beckett di raccogliere in un unico volume alcuni suoi scritti minori e di difficile reperibilità (principalmente testi di taglio saggistico, ma anche lettere e frammenti teatrali). Beckett, dapprima riluttante, acconsentì percependo come intorno alla sua opera si stesse creando un’attenzione sempre maggiore insieme alla necessità – da parte degli studiosi – di avere altro materiale a disposizione per condurre le analisi critiche. Il volume vide la luce nel 1984 per la Grove Press. Beckett scelse un titolo ironico, quasi a insistere sul suo scetticismo circa l’importanza degli scritti lì raccolti: Disjecta (il riferimento è al verso disiecta membra poetæ, “i pezzi del poeta smembrato”, dalle Satire di Orazio).

L’opera – introdotta dalla stessa Cohn – si articola in quattro parti estremamente eterogenee (sia tra loro, sia circa i contenuti interni a ogni singola parte). Nella prima, ad esempio, intitolata “Saggi di estetica” trovano posto, tra gli altri testi, Dante … Bruno . Vico .. Joyce (e ci siamo), un frammento del romanzo Dream of fair to middling women e una lettera del 1937 indirizzata ad Axel Kaun, un conoscente tedesco che gli aveva proposto di tradurre alcuni versi di Ringelnatz. La quarta e ultima parte contiene esclusivamente un frammento del testo teatrale incompiuto Desideri umani.

Difficile capire se a metà degli anni Ottanta del Novecento questa antologia così farraginosa possa davvero aver aiutato gli studiosi beckettiani dell’epoca. Oggi, con la monumentale biografia di Knowlson e la pubblicazione dell’intero epistolario beckettiano a cura della Cambridge University Press chi affronta l’opera di Beckett ha a disposizione ben altri strumenti.

– Quale possibilità resta allora all’artista?
– L’espressione che non c’è nulla da esprimere, nulla con cui esprimere, nulla da cui esprimere, nessun potere di esprimere, nessun desiderio di esprimere, insieme con l’obbligo di esprimere.

La risposta di Samuel Beckett a una domanda di George Duthuit, in un’intervista del 1949 che sarebbe passata alla storia.

All’epoca della sua uscita, il principale motivo di interesse dei Disiecta fu, molto probabilmente, un breve passaggio contenuto nella parte terza (“Parole intorno a pittori”): in una vecchia intervista rilasciata a George Duthuit e apparsa nel 1949 sulla rivista Transition Beckett fece alcune considerazioni sul pittore francese Pierre Tal-Coat, esprimendo molte riserve circa il suo stile. Incalzato da Duthuit, che chiedeva quale tipo di arte lo scrittore avesse allora in mente, Beckett rispose: «Io parlo di un’arte che si allontana da ciò [dall’ordine del fattibile, n.d.r] con disgusto, stanca delle sue meschine prodezze, stanca di fingere di essere abile, stanca di essere abile, di fare un po’ meglio la stessa cosa, di andare un po’ oltre su una via desolata». Duthuit chiese quindi quale possibilità restava all’artista. E Beckett rispose: «L’espressione che non c’è nulla da esprimere, nulla con cui esprimere, nulla da cui esprimere, nessun potere di esprimere, nessun desiderio di esprimere, insieme con l’obbligo di esprimere».

Nel 1949 (prima che il mondo conoscesse Godot, per capirci) questa frase poteva essere liquidata come l’eccentrica asserzione di un oscuro scrittore d’avanguardia. Ripubblicata nel 1984, quando Beckett era una celebrità, la frase assunse i toni di una teoria estetica (semplificando: “Ogni forma di espressione artistica è destinata al fallimento e tuttavia l’artista non può fare a meno di esprimersi») e venne usata nei più diversi contesti come grimaldello esegetico nel tentativo di scassinare i significati dell’opera di Beckett.

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