La capitale delle rovine

Titolo originale: The capital of the ruins Data di composizione: 1946 Prima pubblicazione: su The Beckett Country (Black Cat Press, 1986) Edizioni italiane: su «Il Reportage» n. 8 (Edizioni Centouno, Torino, 2011)
Nel vasto scenario della Seconda Guerra Mondiale, l’irlandese (dunque neutrale) Beckett tifa Francia senza nasconderlo. Biografi e studiosi hanno anzi insistito a lungo sul suo impegno nella cellula «Gloria» della resistenza francese e sul suo ruolo di 007 armato di microfilm (va detto che l’engagement beckettiano è così sfuggente che non appena si trova un dato storico certo è umano aggrapparvisi con tenacia).
Dunque, l’irlandese Beckett negli anni del conflitto passa più tempo a Parigi che a Dublino e per mantenere la residenza parigina si fa assumere dalla Croce Rossa Irlandese che sta costruendo un ospedale a St-Lô (Normandia). Vi lavorerà dall’agosto all’ottobre del 1945 come interprete, ma soprattutto come autista di ambulanze e camion. L’impegno non gli dispiace, ma si rammarica perché ha meno tempo per scrivere. Eppure, sarà proprio lì che Beckett vedrà per la prima volta in faccia la miseria, il dolore e le macerie del dopoguerra che influiranno sulla sua poetica.
St-Lô è solo un mucchio di macerie, la capitale des ruines, come la chiamano in Francia. Su 2600 edifici, 2000 sono stati completamente cancellati, 400 gravemente danneggiati e 200 “solo” leggermente. Tutto è successo nella notte tra il 5 e il 6 giugno. Ha piovuto molto negli ultimi giorni e il posto è un mare di fango. Cosa sarà in inverno è difficile immaginarlo
Da una lettera di Samuel Beckett a Thomas McGreevy, 19 agosto 1945
L’anno successivo, tornato a Parigi, Beckett scrive il reportage e lo intitola appunto La capitale delle rovine (secondo alcuni questo titolo fu scelto perché era lo stesso di un booklet fotografico della cittadina bombardata, secondo altri perché riecheggerebbe Capitale de la Douleur di Paul Éluard di cui Beckett aveva tradotto alcuni testi) e lo spedisce alla redazione di Radio Éireann. Sebbene in passato vi fu chi sostenne che il testo venne letto dallo stesso Beckett e trasmesso, studi più recenti hanno rilevato che non andò mai in onda. Anzi, il testo rimase sepolto negli archivi della stazione radiofonica fino al 1983 e venne pubblicato solo tre anni più tardi nel volume The Beckett Country, a cura di Eoin O’Brien, che uscì in occasione dell’ottantesimo compleanno dell’autore.
La prima parte del testo descrive l’ospedale appena costruito dalla Croce Rossa Irlandese, le venticinque capanne di legno, il sistema di passaggi coperti che collega le cucine ai refettori e alle sale comuni. Fin troppo facile, per il lettore beckettiano, scorgere qui un parallelismo con le prose degli anni Sessanta (Immaginazione morta immaginate, Lo spopolatore, Bing) così attente ai dettagli di illuminazione e temperatura degli ambienti. Proseguendo nella lettura del reportage affiora però lo scopo ultimo del testo, che resta quello di portare una testimonianza sugli esiti della collaborazione tra nazioni: «Quello che era importante, non era che noi avessimo la penicillina mentre loro non ne avevano, non era la generosa liberalità del ministro francese della Ricostruzione (come lo si chiamava allora), ma che si riuscisse, a volte, a intravedere noi in loro e – chissà (visto che è un popolo dotato di immaginazione) – loro in noi, quel sorriso che compare quando si pensa alla condizione umana, un sorriso che nemmeno le bombe sono in grado di cancellare».
Meglio non approfondire se il sorriso di cui qui parla Beckett sia un sorriso di misericordia e fratellanza o un sorriso amaro di disperazione.