Atto senza parole I
Titolo originale: Acte sans paroles Data di composizione: 1956 Prima rappresentazione: Londra, Royal Court Theatre, 3 aprile 1957 Prima edizione: Editions de Minuit, 1957 Edizioni italiane: Einaudi/Gallimard, 1994
A partire dagli Anni Trenta e con una vera e propria impennata tra la metà degli Anni Quaranta e la metà degli Anni Cinquanta, Parigi diventa la patria dei mimi (Decroux e Marceau, solo per fare due tra i nomi più celebri). Il teatro che rinuncia alla parola non può non interessare Beckett e la sua ricerca verso la decostruzione del linguaggio. Anche per questo motivo, l’autore accoglie l’invito lanciato dal mimo Deryk Mendel alla cerchia di scrittori contemporanei di produrre pezzi da mettere in scena. Il risultato è Atto senza parole che Beckett scrive nel 1956 (dunque contemporaneamente alla stesura del capolavoro Finale di partita) con un commento musicale di suo cugino John.
Un’immagine di “Atto senza parole” nella versione prodotta dalla televisione finlandese.
La scena è quella di un deserto illuminato da una luce abbagliante. Per la prima volta nella drammaturgia beckettiana appare una luce impietosa, accecante, la stessa che torturerà Winnie in Giorni felici; per la prima volta è bianco (colore che dominerà poi quasi tutta la produzione letteraria) il teatro in cui si consuma il dramma. L’unico personaggio, solo nel deserto, viene comandato a bacchetta da un fischietto fuori scena che esorta, impedisce e definisce i suoi movimenti. L’azione scenica vede il protagonista muto nel tentativo di raggiungere una caraffa d’acqua che cala dall’alto legata ad una fune. Vano qualunque espediente escogitato per raggiungerla. A nulla servono i cubi che pure vengono calati dall’alto insieme alla brocca. Vano anche il tentativo di uccidersi (una tentata impiccagione fallisce, come in Aspettando Godot). Alla fine della rappresentazione l’uomo è sdraiato per terra, sconfitto. La caraffa d’acqua è ormai così vicina che basterebbe allungare una mano per prenderla, ma ormai l’uomo non la vuole più.
“Gli sforzi dell’intelligenza si vanificano di fronte al negarsi dell’oggetto cui si applicano – conclude efficacemente Cascetta – il sapere si costruisce alla fine come un sapere della non volontà e della rinuncia”. Il critico Cesare Segre, nel suo dettagliatissimo saggio La funzione del linguaggio nell’Act sans paroles (in Bulzoni, 1997) giunge alle stesse conclusioni: “La crudeltà del trattamento inflitto al personaggio sta proprio nell’averne stimolato l’intelligenza per poi reprimerne la volontà”.
Glauco Mauri in una messinscena del 1973 diretta da Enriquez (foto: Tommaso Le Pera)
Atto senza parole fu rappresentato in concomitanza con la prima di Finale di partita, quasi a voler costituire una “coda” di quell’opera. “Poteva essere interpretato come un seguito – ricorda il regista Roger Blin – la storia di Clov andatosene non si sa dove”. E in effetti il protagonista di Atto senza parole piega e ripiega continuamente un fazzoletto fin troppo simile al “vecchio straccio” che copre il volto di Hamm.
La prima italiana fu diretta da Franco Enriquez nel 1962, con Glauco Mauri nel ruolo del protagonista.