L’ultimo nastro di Krapp

Titolo originale: Krapp’s Last Tape
Data di composizione: 1958
Prima rappresentazione: Londra, Royal Court Theatre, 28 ottobre 1958
Prima edizione: “Evergreen Review”, III, 1958
Edizioni italiane: Mondadori, 1969UTET, 1973Einaudi, 1994Einaudi/Gallimard, 1994Einaudi, 2002Einaudi, 2005Mondadori, 2023

Quando Beckett ascoltò per la prima volta la voce dell’attore irlandese Pat Magee, nel dicembre del 1957, la trovò incredibilmente uguale alla voce che aveva immaginato avessero i suoi personaggi. La coincidenza fu ancora più sorprendente perché Beckett ascoltò Magee alla radio mentre declamava alcuni passi tratti proprio da suoi testi (in particolare Molloy e Da un’opera abbandonata). Non è un caso, dunque, che nello stesso periodo le carte di Beckett accolgano un nuovo lavoro teatrale dal titolo provvisorio di Magee Monologue in cui il protagonista ascolta la sua stessa voce provenire da un registratore.

L’attore irlandese Patrick Magee (1924-1982), qui nella rappresentazione del 1958 al Royal Court di Londra, fu il primo Krapp della storia. Beckett scrisse questo testo teatrale modellandolo sulla sua voce. (foto: D. Simon).

L’attore irlandese Patrick Magee (1924-1982), qui nella rappresentazione del 1958 al Royal Court di Londra, fu il primo Krapp della storia. Beckett scrisse questo testo teatrale modellandolo sulla sua voce. (foto: D. Simon).

Ma L’ultimo nastro di Krapp (questo il titolo definitivo della pièce) andrà ben oltre questa circostanza personale e si affermerà nel tempo come uno dei capolavori del teatro beckettiano. In questo atto unico Beckett riesce a condensare, in una dimensione tragicomica e con una stupefacente economia di parole e di gesti, il senso stesso del rapporto tra l’Uomo e il Tempo e tra l’Artista e il fallimento dell’Arte.

Beckett immagina che Krapp, da giovane, abbia registrato un diario sulle bobine di un magnetofono (un apparecchio che oggi è un pezzo da museo ma che all’epoca in cui fu scritto il testo era il massimo della tecnologia). L’azione scenica ci mostra Krapp, ormai vecchio, che in occasione del suo compleanno – come fa ormai da tempo – ha l’abitudine di riascoltare le bobine registrate in gioventù e di registrarne a sua volta una nuova. Il titolo dell’opera dichiara esplicitamente la dimensione definitiva dell’azione cui stiamo assistendo: quella che si compie alla fine della messinscena è la registrazione dell’ultimo nastro di Krapp, appunto. Krapp è ormai giunto alla conclusione della sua vita. Non avrà più occasione di registrare un nuovo nastro. La morte (o meglio, la fine, per usare un concetto più strettamente beckettiano) è ciò che lo attende ormai.

Krapp è un artista. Beckett ce lo comunica a modo suo: conciandolo come un clown (sebbene tutti i riferimenti nel copione che dovrebbero mostrarlo come un pagliaccio – naso rosso, scarpe lunghissime, ecc. – siano stati poi sempre attenuati nelle messe in scena, a cominciare dalle produzioni dirette dallo stesso Beckett). Ma è un tipo particolare di clown, un clown scrittore che – come capiamo ascoltando insieme al Krapp vecchio il nastro registrato più di trent’anni prima – era convinto di trovarsi all’alba di una carriera folgorante, di aver ormai ricevuto l’illuminazione che lo avrebbe consegnato alla gloria e ad una vita di altissima levatura spirituale. E perché questo si adempisse sceglieva di rinunciare alla vita vera, all’amore, alle passioni quotidiane. (Per inciso: la notte di cui parla la voce del giovane Krapp si ricollega chiaramente alla mitica notte che Beckett ha realmente vissuto nell’estate del 1945).

Glauco Mauri nei panni di Krapp (foto: Stoecklin-Mascardi).

Glauco Mauri nei panni di Krapp (foto: Stoecklin-Mascardi).

Si definisce qui il divario tra luce e ombra, tra corpo e spirito che è una delle chiavi di lettura dell’opera, una chiave importante perché suggerita dallo stesso Beckett con una nota in calce al primo copione in cui l’autore indicava l’elemento manicheista come una “matrice culturale” dell’opera.

Il Krapp vecchio invece, quello che noi vediamo in scena, non è altro che un fallito (Krapp si legge come il termine inglese crap, cioè “merda”). L’illuminazione, la gloria, la vita d’artista non hanno prodotto nessun effetto. L’unica opera scritta non ha venduto che una manciata di copie. In compenso tutto ciò cui aveva rinunciato è andato perduto davvero. Krapp non sopporta più il se stesso da giovane, lo deride, lo insulta. Se potesse si mostrerebbe a lui, vecchio e sfatto come è ora, afflitto da problemi di stitichezza e di alcolismo, per fare vedere a quel “povero cretino” come si è ridotto. L’opera si conclude in modo estremamente desolato, con Krapp che guarda fisso il vuoto davanti a sé mentre nel registratore gira silenziosamente il nastro ormai finito.

Il personaggio di Krapp, nella storia della letteratura, si pone agli antipodi rispetto al narratore della Recherche. Nota Cascetta, riferendosi al Krapp di Beckett: “Il punto di arrivo dell’esistenza dello scrittore, come di ogni altra esistenza, è l’esperienza della failure. Siamo lontani dall’approdo di Proust, dall’orgogliosa affermazione di una paga felicità dello spirito che, ricostruendo il passato, tocca l’eternità“. Qui, dunque, ricordare non significa elevarsi bensì prendere atto del proprio fallimento.

Il Krapp di Antonio Borriello (foto: A. Trombetta).

Il Krapp di Antonio Borriello (foto: A. Trombetta).

Sul fronte della costruzione del testo, Beckett raggiunge in Krapp uno dei suoi vertici nella fusione dei registri. Il rigore ieratico dell’idea scenica (un uomo che ascolta la sua voce) si fonde con le gag da basso cabaret (Krapp che scivola sulla buccia di banana), il sottotesto filosofico che guida l’azione si intreccia con la volgarità di molte battute, humour e lirismo si accompagnano per tutta l’opera.

Il personaggio che ascolta la sua stessa voce è una delle icone beckettiane per eccellenza (lo ha evidenziato magistralmente Katharine Worth nel suo saggio Il rituale dell’ascolto in Bulzoni, 1997) e sarà una delle cifre dell’ultimo Beckett sia nel teatro (Quella volta, Dondolo, Passi) sia nella narrativa (Compagnia) sia nelle produzioni televisive (…Nuvole…). Anche l’uso della voce registrata diventerà sempre più preponderante nel teatro beckettiano. Nel Krapp, per la prima e ultima volta, Beckett decide di mettere in scena il mezzo che riproduce la voce. La voce fuori scena non è ancora un elemento straniante (un effetto speciale si potrebbe dire) ma un oggetto di scena pienamente giustificato dal contesto. Bisogna considerare, come già detto, che all’epoca il registratore era un apparecchio appena arrivato sul mercato e sicuramente non di uso comune. Beckett dimostrò una notevole lungimiranza nel travasare il gesto della scrittura in un medium tecnologico (Krapp, nonostante sia uno scrittore, sceglie di affidare il suo diario non alla carta ma a bobine magnetiche). Così come sorprende l’efficacia con cui l’autore ha saputo descrivere la vecchiaia di un artista fallito se si considera che quando scrisse L’ultimo nastro di Krapp Beckett era un giovane artista nel pieno del successo.

Due bozzetti della messinscena del Krapp diretto e interpretato da Antonio Borriello.

Due bozzetti della messinscena del Krapp diretto e interpretato da Antonio Borriello.

La prima assoluta del Krapp si tenne a Londra, al Royal Court Theare, il 28 ottobre 1958 e il protagonista fu impersonato da Pat Magee, l’attore per il quale Beckett aveva concepito il testo. In Italia uno dei maggiori interpreti di Krapp è senza dubbio Glauco Mauri (in una messinscena del 1991 ebbe la geniale idea di usare i nastri di una sua vecchia messinscena del 1961 dialogando così realmente con il se stesso di trent’anni prima). Da ricordare anche il lavoro di Antonio Borriello che al Krapp ha consacrato una buona parte della sua carriera di attore, realizzando anche un saggio critico (Edizioni Scientifiche Italiane, 1992) e diversi studi (alcuni dei quali sono raccolti nella sezione Contributi di questo sito).

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