Passi

Titolo originale: Footfalls
Data di composizione: 2 marzo – fine novembre 1975
Prima rappresentazione: Londra, Royal Court Theatre, maggio 1976
Prima edizione: Grove Press, 1976
Edizioni italiane: Einaudi, 1980Einaudi/Gallimard, 1994Mondadori, 2023

Nell’ottobre del 1935, Beckett e il suo psicanalista Bion, si recarono ad ascoltare una conferenza tra i cui relatori spiccava Carl Gustav Jung. Il grande psicologo svizzero illustrò un diagramma che mostrava le differenti sfere della psiche e il centro oscuro dell’inconscio nel mezzo. Beckett rimase molto colpito dagli argomenti trattati. A un certo punto Jung invitò sul palco una ragazza di circa 21 anni. Si trattava di un soggetto totalmente chiuso in se stesso che sembrava non reagire agli stimoli esterni. Jung disse: “Il problema di questa ragazza è che non è mai nata veramente“. Quarant’anni dopo, Beckett avrebbe ritrovato questo inquietante episodio nella sua memoria e sarebbe partito da qui per comporre Passi.

Il problema di questa ragazza è che non è mai nata veramente.

Carl Gustav Jung parlando di una sua paziente in una conferenza del 1935.

Scritta per celebrare il proprio settantesimo compleanno, la pièce fu concepita da Beckett per una delle sue attrici preferite, Billie Whitelaw, che la portò in scena in occasione della prima, nel maggio del 1976, al Royal Court Theatre di Londra. Per lo scrittore non fu solo un’ulteriore prova di scrittura teatrale, ma anche un coinvolgimento – più marcato rispetto alle opere precedenti – in questioni strettamente tecniche: l’uso delle luci, la sincronizzazione degli effetti sonori e del recitato, la precisione nei tempi.
Passi è un piccolo congegno che deve funzionare perfettamente per restituire il senso immaginato dall’autore. La durata è di soli quindici minuti (una brevità che vuole rammentare la brevità dell’esistenza, come nota Cascetta). Beckett lo immaginò diviso in quattro parti. Nella prima vediamo May, una donna spettrale totalmente ricoperta di stracci che si muove con precisione metronometrica avanti e indietro sul palcoscenico. May intrattiene un dialogo con la voce fuori scena della madre morente. Nella seconda parte è solo la madre a parlare, commentando la condizione di sua figlia. La terza parte è un nuovo monologo, condotto però da May, ed è il punto cruciale dell’opera.

Qui, infatti, May racconta la storia di una figura molto simile alla sua: è un episodio della vita di una certa Amy (ovvio anagramma del nome della protagonista) che sollecitata dalla madre, una certa signora Winter, nega di aver risposto “amen” alle battute del sacerdote durante il Vespro. Amy affermerà che non era realmente lì, che non era presente, anche se la madre l’ha sentita rispondere. Amy (“la ragazza che non è mai nata veramente“) e May potrebbero essere la stessa persona (rimandando così all’espediente usato dalla protagonista di Non io: parlare in terza persona per non voler ammettere che si sta parlando di se stessi). La quarta e ultima parte della pièce è una semplice coda di pochi secondi, in cui May scompare effettivamente dal palco mentre lontano echeggiano per l’ultima volta i rintocchi che hanno scandito tutto il testo. E’ una chiusura breve ma significativa, perché qui c’è la rappresentazione “fisica” della non-esistenza “psichica” di May.

Billie Whitelaw, da molti considerata l’attrice beckettiana per eccellenza, nella parte di May (Royal Court Theatre di Londra, 1976).

Billie Whitelaw, da molti considerata l’attrice beckettiana per eccellenza, nella parte di May (Royal Court Theatre di Londra, 1976).

Si arriva così, con eleganza mirabile, all’apice di una tensione verso il nulla e il silenzio che Beckett ha costruito nel giro di poche battute. Tutto, nel testo, rimanda al gelo e all’oscurità, anche nei particolari: il cognome della madre di Amy è Winter, cioè “inverno”; la porta della chiesa era originariamente indicata da Beckett come “porta sud”, ma l’autore corresse in “porta nord” proprio per evitare qualunque riferimento al sole o al calore.

Il testo originale inglese è un arabesco di allitterazioni, ripetizioni, accorgimenti ritmici ottenuti con l’uso di figure retoriche, il tutto per costruire un copione che fosse il più possibile musicale. La prima italiana di Passi risale al luglio del 1977 (XX festival di Spoleto), con la regia di Romolo Valli e Luisa Rossi nella parte di May.

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