Un pezzo di monologo

Titolo originale: A piece of monologue
Data di composizione: 2 ottobre 1977 – 28 aprile 1979
Prima rappresentazione: New York, La Mama Theater, 14 dicembre 1979
Prima edizione: “The Kenyon Review”, n. 1/III, 1979
Edizioni italiane: Einaudi, 1985Einaudi/Gallimard, 1994

Giocando sulla dicotomia luce-tenebra (che già informava il tessuto de L’ultimo nastro di Krapp), Beckett, forse assecondando il suggerimento dell’attore David Warrilow che una volta gli aveva chiesto espressamente un monologo sulla morte, si mette al lavoro nell’ottobre del 1977 su un nuovo testo dal titolo provvisorio di Gone. Per quasi tutto il 1978, l’opera (che inizialmente non era concepita per il teatro, ma come prosa breve) si arenò. Fu Martin Esslin a “sbloccare” la situazione nel gennaio del 1979 quando chiese a Beckett se aveva qualche inedito da pubblicare sulla Kenyon Review. L’autore confessò allora di avere Gone in bozza. Si rimise al lavoro sul testo e lo condusse in porto con il titolo Un pezzo di monologo e un corredo di indicazioni di scena che lo trasformarono in un vero e proprio testo teatrale.

La luce. Anzi, le luci. Due. Una diffusa ma debolissima illumina un uomo in camicia da notte. Tutto bianco: la sua veste da camera, i capelli, i calzini. Bianco anche il piede del letto che si intravede nella penombra. La seconda luce è quella della lampada a stelo, globo bianco delle dimensioni di un teschio. Entrambe sono accese fin dall’inizio, ma si spegneranno in modo differito alla fine. Indica Beckett nelle note di regia: “Trenta secondi prima della fine del parlato, la lampada comincia a spegnersi. Lampada spenta. Silenzio. Parlatore, globo, piede del letto appena visibili nella luce diffusa. Dieci secondi. Sipario“.
La tenebra. Riempie gli spazi e i silenzi del testo. Tornano spesso, nel copione, parole come “buio”, “tramonto”, “luce morente”, “notte”.

Luce e tenebra sono i due simboli estremi della nascita e della morte. “Nascere fu la sua morte” è il drammatico incipit e presenta subito la spaccatura tra voce e presenza scenica, separazione che, pur assumendo di volta in volta forme diverse, ricorre spessissimo nei dramaticule: basti pensare a Non io (anche qui Bocca parla di sé in terza persona), a Quella volta (la voce di Ascoltatore proviene dall’esterno e si frammenta in tre), a Dondolo (dove le battute di Donna sono quasi tutte recitate fuori scena), a Passi (May racconta la storia di una certa Amy che probabilmente è lei stessa) fino all’estremo Cosa dove (Bam e la sua voce sono interpretati da due attori distinti).

Si tratta di una severa, toccante, pudica testimonianza della meditazione dell’autore ormai anziano sulla morte a partire da una anticipazione della propria morte, nell’unico modo che la filosofia fenomenologica, muovendo dalla constatazione che della propria morte non può esserci esperienza, ci indica come possibile: la morte d’altri

Annamaria Cascetta, «Il tragico e l’umorismo»

Tra luce e tenebra, tra nascita e morte, il Tempo. “Due miliardi e mezzo di secondi. Incredibile così pochi“, dice il Parlatore nella parte iniziale. E ancora: “Trentamila notti. Incredibile così poche“. Sembra di ascoltare Pozzo in Aspettando Godot e il suo “Partoriscono a cavallo di una tomba, il giorno splende un istante, e poi è di nuovo la notte“. Per dare maggiore forza al senso di caducità dell’esistenza umana, Beckett ricorre a molte immagini di stoppini accesi, candele, lampade ad olio. Luci effimere, tremolanti, che si spengono con estrema facilità.

All’inizio del monologo il Parlatore si chiede da dove provenga la luce diffusa presente nella stanza e la cerca invano nel “vasto buio” oltre la finestra. Questo passaggio ricorda molto da vicino l’inizio di Fremiti fermi, l’ultima prosa beckettiana. In un altro punto viene proposto un parallelismo tra la pronuncia della parola birth (“nascita”) e il parto: la lingua che per pronunciare th si insinua oltre i denti e si affaccia tra lo spacco delle labbra ricorda la testa del nascituro che preme contro le pareti vaginali. Tale immagine ha senso solo se il testo è in inglese. Per questo motivo, quando Beckett si accinse a portare in francese l’opera applicò cambiamenti sostanziali. La versione francese è del 1982, si intitola Solo e l’autore volle pubblicarla specificando che si trattava di un “adattamento” e non di una “traduzione”.

David Warrilow portò Un pezzo di monologo in scena al La Mama Theater di New York nel dicembre del 1979. Fu lo stesso Warillow a far debuttare il testo in Italia (pur recitandolo in inglese) al Teatro La Soffitta di Bologna nel novembre di due anni dopo. La prima “in italiano” fu proposta da Virginio Gazzolo diretto da Giancarlo Romani Adami, al Festival di Asti nel luglio del 1982 nell’ambito del progetto Una voce dal pianeta Beckett e fu presentata insieme a Quella volta e Improvviso dell’Ohio.

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